Antonio Carlucci, L’Espresso 22/6/2012, 22 giugno 2012
In tre per il Messico– L’imprevedibile si è manifestato venerdì 11 maggio. Enrique Peña Nieto, candidato alla presidenza del Messico per il Partito rivoluzionario istituzionale e in testa nei sondaggi, è andato all’Università ibero-americana a incontrare gli studenti
In tre per il Messico– L’imprevedibile si è manifestato venerdì 11 maggio. Enrique Peña Nieto, candidato alla presidenza del Messico per il Partito rivoluzionario istituzionale e in testa nei sondaggi, è andato all’Università ibero-americana a incontrare gli studenti. Le domande che gli hanno fatto non gli sono per nulla piaciute. L’incontro è presto degenerato. Gli studenti, tra fischi e ululati, gli hanno rinfacciato l’appartenenza a un partito che nella sua lunga storia non ha mai amato la libertà di espressione mentre lui replicava accusandoli di essere falsi studenti al servizio dei concorrenti nella corsa alla presidenza. È finita con Peña Nieto chiuso in un bagno in attesa che la scorta trovasse una via sicura di uscita. Il venerdì nero del candidato del Pri ha segnato la nascita del movimento Yo Soi 132, sono il centotrentaduesimo, visto che i cosiddetti falsi studenti hanno subito replicato a Nieto con un video su YouTube in cui 131 di loro dichiaravano nome, cognome, facoltà di appartenenza e mostravano il tesserino dell’Ibero-americana. Dal giorno successivo il fermento giovanile e studentesco è cresciuto velocemente. Fino a una manifestazione di quasi 100 mila persone per le strade di Città del Messico che reclamavano libertà di stampa e di parola. Con gli improvvisati leader del movimento che annunciavano di non appoggiare nessun candidato e invitavano ad andare a votare non scheda bianca, ma "liberamente e criticamente", visto che il primo luglio, oltre alle presidenziali, quasi 80 milioni di messicani sono chiamati a rinnovare il Parlamento e migliaia di sindaci. Quanto possa influire Yo Soi 132 nella scelta del presidente del Messico il prossimo primo luglio, nessuno oggi è in grado di dirlo. Ma è il segno più nuovo e più evidente del fermento di un paese che va alle urne mentre è alle prese con due grandi tragedie. La prima: la guerra tra lo Stato e i cartelli del narcotraffico, organizzazioni che fatturano 23 miliardi di dollari ogni anno (la cifra deriva dalle analisi di una agenzia federale Usa), che ha investito con un’ondata di violenza cresciuta giorno dopo giorno l’intera società messicana. La seconda: la crisi economica, perché quello che è accaduto negli Usa si è riverberato in modo diretto e immediato sul Messico, a cominciare da migliaia di emigrati permanenti o frontalieri costretti a rientrare nel proprio paese fino alla diminuzione drastica delle rimesse di chi ha deciso di restare negli Usa (nel 2009 il Pil registrò meno 6,9 per cento, poi il trend è cambiato). Due cifre raccontano meglio di qualsiasi parola le due tragedie messicane. La guerra è costata nei sei anni di presidenza di Felipe Calderon, uomo del Partito di azione nazionale (Pan), più di 50 mila morti e 5 mila scomparsi. La crisi ha visto crescere il numero dei poveri, in un paese che la Banca mondiale accredita al 13esimo posto nel mondo per potere di acquisto. E secondo l’agenzia governativa Coneval, nel triennio della crisi 2008-2010 i poveri sono passati da 48 a 52 milioni, oltre il 46 per cento su una popolazione di oltre 113 milioni di cittadini. Nessuno dei candidati appare attrezzato per gestire un paese che potrebbe facilmente seguire lo stesso sentiero di sviluppo di altre nazioni del continente americano, come il Brasile o il Cile, ma invece rischia di sprofondare nell’inferno di una società in cui sono i cartelli criminali a dettare l’agenda. I tre candidati principali (il quarto, Gabriel Quadri, appartenente alla sinistra radicale, nei sondaggi raccoglie un paio di punti percentuali di gradimento) sono ancora legati ai sogni e agli incubi nazionalisti, rivoluzionari o liberisti che di volta in volta sono stati presentati come la soluzione di ogni problema agli elettori messicani. Sono candidati inesorabilmente ancora nel passato del Messico. A cominciare da Peña Nieto, cresciuto nel Pri, il partito che ha espresso il presidente per 70 anni, dal 1929 al 2000, e arrivato fino al ruolo di governatore dello Stato Messico. Il Pri è stato il classico partito-Stato che controllava tutto, dai sindacati alle imprese, dalle professioni agli apparati dello Stato, avvolgendo la realtà con il manto del pensiero unico nazionalista. È diventato il simbolo della corruzione presente a ogni livello sociale. Nieto, partito in gran vantaggio nei sondaggi, perde giorno dopo giorno consensi. Si era sforzato di presentarsi come "il volto nuovo e moderno del Pri", ma l’impresa non è semplice e l’episodio dell’università Ibero-Americana segnala la sua incapacità di immaginare una società dove si confrontano idee diverse. Anche il suo principale oppositore non è così nuovo come ama accreditarsi. Andrés Manuel Lopez Obrador, candidato del Partito della rivoluzione democratica, viene dal Pri. Poi se n’è andato e ha scalato molte posizioni nel Prd fino a diventare il governatore del distretto federale dove si trova la capitale. Alla corsa ha già partecipato nel 2006 perdendo di strettissima misura contro Felipe Calderon, ma per lunghi mesi non ha voluto riconoscere la sconfitta: si autodefinì il presidente legittimo e si appellò alla piazza. Adesso punta tutto sulla spesa sociale, il cavallo di battaglia che lo ha reso popolare come numero uno del distretto regione di Città del Messico. Schiacciata dalla potenza di fuoco di Peña Nieto e di Lopez Obrador, c’è Josefina Vazquez Mota del Pan. Ex ministro e poi capo dei deputati del partito ha sbaragliato alle primarie il delfino del presidente Calderon per poi rimanere indietro nei sondaggi. Propone la continuità in tutto, come se in Messico fosse stato fatto tutto bene. Esprime dubbi composti sul modo di continuare la lotta ai cartelli del crimine, bande che hanno sottoposto il Paese a una dose di violenza e al cui confronto i talebani appaiono delle educande. Basterebbe vedere gli ultimi sviluppi: nella guerra che i cartelli si fanno tra loro e in quella comune di tutti contro lo Stato, la caccia ai membri della banda rivale è sempre stata l’attività principale. Negli ultimi mesi c’è stata una ulteriore escalation: i gangster scelgono a caso tra i cittadini le loro vittime, li scannano (letteralmente), li appendono ai ponti, li lasciano nei paesi dei loro rivali o davanti alle caserme per dimostrare la loro forza. Come risolvere questa tragedia? Sia Nieto che Obrador hanno promesso innanzitutto di ritirare l’esercito dalle strade, fonte di sicurezza in alcune aree dove polizia e autorità locali sono al servizio dei cartelli criminali ma anche di abusi e di nuovi casi di corruzione (negli ultimi mesi sono finiti in carcere quattro generali dell’esercito). Ma i piani sono ancora fumosi e ambigui sia quando i candidati parlano di creare una nuova polizia nazionale, sia quando annunciano di volere la fine della violenza e la riconciliazione. Le scelte che saranno fatte da chi vincerà le elezioni rischiano anche di incidere sul rapporto con gli Stati Uniti, fonte di sentimenti contrastanti da sempre nonostante Washington contribuisca con finanziamenti che vanno dai 12 ai 15 miliardi di dollari l’anno alla battaglia contro i cartelli. Le prime vittime sono naturalmente i cittadini messicani che si trovano a vivere in un paese bloccato, dove monopoli e oligopoli sembrano intoccabili e fonte o di sprechi o di immensi profitti per pochissime persone. Poi ci sono i cartelli legali che nessuno riesce a smantellare. La società petrolifera nazionale, Pemex, è solo fonte di perdite in un Paese dove il petrolio c’è e potrebbe essere esportato. Paradosso: il Messico è costretto a importare benzina raffinata. Le banche sono nelle mani di un paio di gruppi, il cemento da costruzione è prerogativa esclusiva della Cemex, l’elettricità è distribuita da una sola compagnia pubblica, persino il pane vede una situazione di mancanza di concorrenza visto che esiste un solo grande gruppo, il Pan Bimbo. A rendere ancora più immobile la situazione è la presenza di sindacati di categoria, spesso vere e proprie lobby di potere (la più forte è quella degli insegnanti) che difendono lo status quo e rifiutano ogni cambiamento. Dunque, non sono pochi i problemi che il prossimo presidente dovrà affrontare. Ma chiunque vincerà il primo luglio per insediarsi nel palazzo di Los Pinos sei mesi dopo, avrà come prima preoccupazione i cartelli del crimine. Una questione così grande che forse il prossimo presidente non potrà neanche mettere piede nella residenza di Los Pinos, ma come Felipe Calderon dovrà governare chiuso in una caserma.