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 2012  giugno 22 Venerdì calendario

MONTI: «HERR MULLER, PUO’ FIDARSI DELL’ITALIA»

A una settimana da un Consiglio europeo al quale guarda tutto il mondo e a poche ore dal vertice propedeutico di Roma, Mario Monti si rivolge alla opinione pubblica dei più grandi Paesi della Ue attraverso una intervista concessa allo spagnolo «El País», al polacco «Gazeta Wyborcza», al francese «Le Monde», al tedesco «Süddeutsche Zeitung», all’inglese «The Guardian» e a «La Stampa». E accettando di rivolgersi idealmente ad un ipotetico «Herr Müller», il cittadino medio tedesco che mai come in questo tempo è in grado di influire sui destini del Vecchio Continente, Mario Monti gli dice di «non preoccuparsi» perché finora la Germania ha tratto «grandi vantaggi» materiali dall’integrazione europea e di «rilassarsi» anche rispetto al timore di tenere alto il tenore di vita degli italiani, perché l’Italia non ha mai «chiesto prestiti» e invece ne ha «concessi molti». Ma a chi gli chiede cosa potrebbe accadere in caso di una risposta debole da parte del vertice del 28 e 29 giugno a Bruxelles, il presidente del Consiglio adombra uno scenario allarmante: «Si determinerebbe un accanimento speculativo anche verso Paesi meno deboli, come l’Italia, che sono in linea con i parametri europei ma che si trascinano un alto debito dal passato». E al tempo stesso ci sarebbe il rischio di una crisi di rigetto verso l’Europa. Ma il professor Monti non è mai stato un pessimista, semmai un ottimista nelle virtù analitiche, come indirettamente conferma l’istantanea del suo studio a Palazzo

Chigi: alle 8 del mattino la scrivania del presidente del Consiglio è quasi interamente occupata da tre pile di cartelle, appunti, dossier.

Presidente, cosa è cambiato dopo il G20 di Los Cabos? Sono intervenute significative novità nell’affrontare i problemi dell’Europa?

«Il G20, naturalmente, si dedica all’insieme dell’economia mondiale e alle questioni strategiche. In questo ambito l’Europa, mai come questa volta, è stata al centro dell’attenzione e delle preoccupazioni. Il G20 ha la particolarità di permettere a ciascuno dei leader europei di capire meglio le preoccupazioni dei non europei e d’altra parte il contesto più sciolto rispetto ai Consigli - dove invece si va per decidere - consente anche di cogliere i posizionamenti di ciascuno. Abbiamo insistito perché non si discutesse soltanto di Europa e d’altra parte le fonti dei principali squilibri macroeconomici e di bilancio pubblico sono fuori dall’Europa. La tanto chiacchierata eurozona presenta nel suo assieme disavanzo e debito pubblico che, in rapporto ai rispettivi Pil, sono inferiori a quelli del Regno Unito, degli Stati Uniti e del Giappone».

Questa sensibilità e questo clima più informale hanno aperto vie nuove?

«Non vie radicalmente nuove ma motivi, spero, per fare passi avanti e convergere su soluzioni efficaci. Vedo Los Cabos come un inizio promettente e largo, per i Paesi presenti in vista del Consiglio europeo. Prima del quale sono previsti alcuni passaggi importanti, compreso quello in programma a Roma».

Cosa si aspetta dal vertice a quattro di oggi? E’ una tappa verso una accresciuta integrazione di tutta l’Unione, oppure è un tentativo di formare un nocciolo duro?

«C’erano una volta, come si direbbe nelle fiabe, Francia e Germania. Continueranno ad esserci, l’accordo tra di loro è condizione necessaria per i progressi dell’Ue e tuttavia è sempre meno una condizione sufficiente. L’Italia, da tempo, avrebbe avuto ragioni per essere considerata, sia dalla Francia che dalla Germania, quasi altrettanto rilevante».

«Dico quasi perché l’armonia di questa coppia è interesse vitale per tutta l’Europa, come la storia ci ha insegnato. Negli ultimi anni l’Italia non era sollecitata a co-influire nel processo come gli altri due, ma al suo nascere l’attuale governo italiano ha goduto di una apertura da parte della Francia del presidente Sarkozy e della Germania della cancelliera Merkel. Recentemente si era stabilito che a Roma si sarebbe tenuto un incontro a tre. Abbiamo poi ritenuto, visto l’interesse del governo spagnolo a partecipare, di accogliere volentieri la richiesta. Ci sono state altre manifestazioni di interesse a partecipare, ma abbiamo ritenuto che estendere oltre la cerchia avrebbe potuto generare equivoci. Io vedo la partecipazione italiana come un modo per fare ponte tra gli “ins” e i “pre-ins” per quanto riguarda l’eurozona».

Otto mesi fa l’Italia era stata «convocata» a Cannes e fu messa alle strette perché desse garanzie e spiegazioni: da allora è come se fosse cambiato il mondo?

«Io non c’ero, ma mi dicono che siano state due giornate molto, molto pesanti per Grecia e Italia. Sì, nel giro di questi mesi le cose sono migliorate. Tra l’altro, alcuni giorni fa, l’Università di Toronto ha pubblicato il “Compliance Report” che prende in esame i commitments assunti da diversi Paesi nel novembre a Cannes: come performance, il primo è risultato il Regno Unito, il secondo è l’Unione europea nel suo insieme e terza è l’Italia che, come Paese-paese, è al secondo posto, il migliore dentro l’eurozona. Naturalmente abbiamo ancora tantissima strada da fare, ma è incoraggiante che la voce dell’Italia venga ricercata ed ascoltata».

Secondo lei quale potrebbe essere considerato l’obiettivo minimo e irrinunciabile per il vertice di Bruxelles?

«Occorre assolutamente che ci siano due cose. Una prospettiva di medio termine di rafforzamento dell’integrazione, in modo che tutti gli europei sappiano dove vanno e i mercati possano convincersi che sarà rafforzata la volontà di rendere la moneta unica indissolubile e irrevocabile. L’altra cosa necessaria è un insieme di misure realizzabili, nell’assetto attuale sia dei Trattati che delle istituzioni, misure più efficaci per dare stabilità finanziaria all’eurozona. E questo passa attraverso una più piena unione bancaria. Passa attraverso la garanzia sui depositi. Passa per nuovi meccanismi che siano in grado di fare ponte con i Paesi che hanno adottato seriamente gli impegni delle regole comunitarie, li hanno realizzati e che tuttavia scontano una certa inerzia e diffidenza. A volte impiegando molto tempo per ottenere nei mercati un riconoscimento adeguato. E naturalmente i mercati vanno tenuti ben presenti, anche se non sono il benchmark della perfezione: abbiamo visto che hanno dormito per 8-9 anni dopo l’ingresso nell’euro e i tassi di interesse hanno spesso consentito ai governanti di dormire. Oggi siamo in una situazione di convulsioni e di nuovo il mercato finisce per scoraggiare le scelte buone, perché diversi Paesi si trovano a far sempre più fatica a far comprendere alle opinioni pubbliche che politiche giuste vanno continuate. Potrebbe essere dunque opportuno, davanti al riconoscimento da parte delle autorità europee del rispetto delle norme per la finanza pubblica e delle riforme strutturali, trovare uno strumento, uno “scivolo” di passaggio verso un mercato più ordinato e sostenibile in termini di tassi di interesse».

Perché è così convinto che l’Italia non abbia bisogno di aiuti e ripete così spesso questo concetto?

«Ci sono Paesi e popoli in Europa che, per qualche ragione, hanno la convinzione di essere sempre i pagatori del resto d’Europa. Ma non è così. Guardiamo il fondo salva-Stati, l’Efsf: se qualcuno nel Nord Europa pensa che l’Italia abbia avuto sostegni, non è assolutamente così. In percentuale la Germania copre il 29,1%, la Francia il 21,8, l’Italia il 19,2, la Spagna il 12,7».

Si può escludere che in futuro l’Italia possa chiedere aiuti?

«L’Italia finora non ha chiesto prestiti, ne ha dati molti a Portogallo, Grecia e Irlanda e prossimamente alla Spagna. Ogni giorno che passa sussidiamo altri con gli alti tassi di interesse che paghiamo nel mercato. Nel futuro l’Italia non avrà bisogno di aiuti e se dovesse farlo vuol dire che c’è qualcosa di sbagliato nel sistema. Ma non li chiederà perché quest’anno, secondo le previsioni di primavera della Commissione europea, l’Italia ha un disavanzo pubblico che è il 2% del prodotto interno lordo, l’insieme dell’Ue è al 3,6%, la zona euro è al 3,2%, l’Olanda al 4,4%, la Francia al 4,5%, la Germania solo allo 0,9%. E poi l’Italia avrà nel 2013 un avanzo in termini strutturali dello 0,6% e sarà uno dei primi Paesi ad averlo. C’è qualcosa di imperfetto nella zona euro se un Paese che sta facendo sforzi enormi al suo interno ha ancora tassi di interesse così alti. Tra l’altro in un sistema che vogliamo sia fatto di incentivi e disincentivi, di premi e punizioni».

Se avesse dieci minuti per convincere un ipotetico «Herr Müller» in Germania circa la bontà degli sforzi dell’Italia, cosa gli direbbe?

«Gli direi, caro Herr Müller anzitutto rilassati, perché ti sei convinto, o ti avranno convinto, che tu stai mantenendo un eccessivo tenore di vita degli italiani. Guarda, non è così perché non ci sono stati finanziamenti all’Italia e non arrivo a chiederti di credere al fatto che i tedeschi stiano traendo vantaggio per il fatto che la Germania riesce a finanziarsi a tassi così bassi, anche come effetto speculare degli alti tassi degli altri. E gli direi: caro Herr Müller, convinciti di ciò che la cancelliera del tuo Paese da qualche tempo sta dicendo e cioè che la Germania trae grandi vantaggi, come tutti i Paesi, dall’integrazione europea. E’ vero che, essendo l’economia più grande, paga un po’ più degli altri in termini di bilancio dell’Ue, che comunque è l’1 per cento di tutta l’economia europea. Ma guarda che l’economia della Germania in sé così ben funzionante perché voi tedeschi siete molto bravi come lavoratori e risparmiatori e mediamente siete ben governati - tra gli ingredienti del suo grande successo negli ultimi 50 anni ha quello di essere al cuore di un grande mercato unico. E ha un altro vantaggio: da 10-12 anni è anche al centro di una zona di stabilità monetaria, mentre prima avevate le svalutazioni competitive che vi penalizzavano. E anche noi italiani abbiamo avuto molti vantaggi nell’essere associati con voi tedeschi; perché, un po’ per volta, abbiamo importato la vostra cultura della stabilità». Monti sorride: «Come vedete l’ho spiegato in meno di dieci minuti. Magari lui avrebbe qualche domanda, ma ad una seconda birra sarei ancora più persuasivo».

Cosa cambia in Europa con la presenza di un personaggio nuovo come il presidente francese Hollande? Pensa che il suo piano per la crescita da 120 miliardi sia sufficiente per una svolta?

«Condivido la pressione che il Presidente sta facendo perché l’Europa si doti di più efficaci politiche per la crescita. E sono incoraggiato anche dal fatto che vedo in lui (spero di non sbagliarmi) una Francia più disposta che in passato ad accettare certi avanzamenti nell’integrazione europea. E se ci fosse, ma credo non ci sarà, qualche difficoltà di comprensione tra il presidente Hollande e la cancelliera Merkel le posizioni del governo italiano possono essere di aiuto per la piena armonia tra questi due motori che da soli non bastano, ma se uno dei due si inceppa o i due sono distonici, l’Europa ha grossi problemi».

Se il vertice di Bruxelles non desse dei risultati, esattamente cosa potrebbe accadere? Si corrono rischi seri?

«Esattamente non lo so e non lo sa nessuno al mondo. Ci sarebbero attacchi speculativi sempre maggiori, gran parte dell’Europa si troverebbe a dover continuare a sopportare tassi di interesse molto alti. In questa miscela, la frustrazione dei cittadini nei confronti dell’Europa aumenterebbe e quindi si accrescerebbe il paradosso: per uscire bene dalla crisi c’è sempre più bisogno di integrazione, ma se il Consiglio europeo non interviene sull’eurozona, la volontà delle opinioni pubbliche, dei governi e anche dei Parlamenti si rivolgerebbe contro quella maggiore integrazione che invece è necessaria. Un rischio che vedo persino nel nostro Parlamento, che tradizionalmente è sempre stato europeista e non lo è più. Qualche volta l’Europa sembra ispirare le sue azioni, che ci sono e vanno nella direzione giusta, al principio “elogio della lentezza”, un principio che dovrebbe essere messo da parte».

Intervista a cura di Philippe Ridet (Le Monde), Andrea Bachstein (Süddeutsche

Zeitung), Pablo Ordaz (El País), John Hooper (The Guardian), Tomas Bielecki (Gazeta Wyborcza), Fabio Martini (La Stampa)
"Si rischia la disaffezione È un pericolo che vedo persino nel nostro Parlamento che è sempre stato europeista e non lo è più In Italia le cose sono molto migliorate, siamo al secondo posto, dopo il Regno Unito, nell’aver rispettato gli impegni presi al vertice di Cannes In caso di fallimento gran parte del continente avrebbe tassi molto alti E cittadini e Parlamenti si rivolgerebbero contro una maggiore integrazione Serve una piena unione bancaria; e meccanismi per fare ponte con quei Paesi che rispettano gli impegni, ma scontano una certa diffidenza Il rafforzamento dell’integrazione è fra le priorità del vertice: i mercati devono convincersi che l’euro è indissolubile e irrevocabile A un tedesco direi: non è vero che mantieni un eccessivo tenore di vita italiano. E a una seconda birra sarei ancora più persuasivo"