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 2012  giugno 22 Venerdì calendario

DAL NOSTRO INVIATO

POMIGLIANO D’ARCO
— C’è un silenzio irreale lungo la linea di montaggio della Nuova Panda. La grande fabbrica moderna di Pomigliano con pedane anche in parquet è vuota. La produzione è ferma. L’ultima Panda è uscita alle 13,30 di mercoledì scorso con la fine del primo turno di lavoro. Dallo stabilimento di Termoli non arrivano più i motori. Mancano le bobine che la Federal Mogul di Carpi produce a singhiozzo per colpa del terremoto. «Questo è davvero brutto da vedere», dice Sebastiano Garofalo, direttore dello stabilimento e amministratore delegato della Fip, che sta per Fabbrica Italia Pomigliano, la newco inventata dalla Fiat per non applicare più il contratto nazionale, mentre osserva la catena arrestarsi. C’è pure qualche cigolio, raro rumore antico in un impianto sfacciatamente robotizzato, lindo, luminoso. Qui si vedono i 700 milioni investiti dalla Fiat-Chrysler. Ma sia chiaro: è pur sempre una catena di montaggio, con la ripetitività dei gesti e la parcelizzazione del lavoro. «Questo è l’impianto automobilistico all’avanguardia nel mondo», sussurra. «Sono venuti quelli della Volvo e della Bmw, a vederlo». Certo è che Garofalo, proprio come Sergio Marchionne, non se l’aspettava la sentenza del Tribunale di Roma. I 2.192 che ora lavorano a Pomigliano, su due turni per sfornare 700 Panda al giorno, se li è scelti
uno a uno. Una decina li ha chiamati anche da Termini Imerese. I 145 da assumere con tessera Fiom non li avrebbe mai selezionati. Ma non può dirlo. Lui, d’altra parte, pensava di averla definitivamente sconfitta la Fiom di Maurizio Landini.
Esattamente due anni fa qui si è consumata la grande battaglia referendaria sull’accordo per la nuova organizzazione del lavoro, diciotto turni, pause ridotte, scioperi limitati, indennità di malattia non sempre garantita. Prevalse Marchionne, ma quel no quasi al 40 per cento si trasformò in una vittoria morale della Fiom. Passò l’idea della compressione dei diritti. Quella che i giudici di Roma, ieri, hanno confermato. Ma non
c’è più alcun segno dello scontro. Tutto sotterrato nell’impianto che non ha mai scioperato da quando (a metà dicembre) ha ripreso a girare, che ha praticamente azzerato il tasso di assenteismo (l’1 per cento, arrivato all’1,4 per cento lunedì scorso durante Italia- Irlanda contro il 20-25 per cento dei decenni passati), che ha accresciuto la produttività del 20 per cento, che ha innalzato la qualità
di oltre il 50 per cento. C’è stata una rivoluzione a Pomigliano. Che non è più solo una fabbrica di automobili: è la fabbrica di una nuova ideologia della produzione che plasma di sé tutto il processo e tutti gli addetti, operai, impiegati, dirigenti. Lo si capisce già arrivando dall’autostrada da Napoli. Lì sopra uno dei capannoni campeggia un mega-manifesto. Ci sono raffigurati decine di operai e
operaie che in tuta bianca compongono il disegno della Nuova Panda. Sopra la scritta (o lo slogan): «Noi siamo quello che facciamo ». È questa la Fiat multinazionale che vuole esaltare il senso di appartenenza e cancellare le differenze: tutti in tuta bianca pure i dirigenti, gli uffici non nelle palazzine separate ma all’interno dei reparti. Pomigliano come Detroit. Lo impone la World class manufacturing (Wcm), la filosofia per uno stabilimento modello: «zero difetti, zero guasti, zero sprechi e zero scorte». C’è stato un processo di indottrinamento pervasivo a Pomigliano. Garofalo non la direbbe così, ma ammette che «è stata un’operazione durissima ». Si parlò — non a caso — di
rieducazione. La formazione, iniziata già nel 2007, ha svolto un ruolo fondamentale. Oggi l’età media dei duemila di Pomigliano è intorno ai 38 anni. Sono tutti giovani ingegneri i capi dei reparti.
Giuseppe Prevete ha 49 anni. È uno degli anziani, è operaio capo di una Ute (Unità tecnologica elementare) al montaggio. Lavora a Pomigliano dal 1989, quando era Alfa Romeo. «Ero un ragazzo e vedevo tante cose strane: materiali accatastati, cassoni stracolmi, pavimenti sporchi di grasso. C’era tanto menefreghismo. Ora ciascuno di noi si pone il problema della responsabilità». Ma c’è anche autoritarismo? «Sì, certo. Ma le macchine escono perfette». E quando un cliente dichiara che c’è un difetto, per esempio che la portiera non si chiude bene, Garofalo fa stampare la frase del cliente su un manifesto che poi viene appeso vicino alla postazione di chi monta la portiera. Per non dimenticare durante il turno. È una questione di motivazioni, secondo Mariarosaria Attena in fabbrica da tredici anni. «Ho due figli e sono stata in cassa integrazione per tre anni. Non voglio tornare indietro. Se dovesse arrivare il terzo turno di notte? Mi organizzerò, vorrebbe dire che le cose vanno bene». Garofalo, 63 enne, siciliano di Siracusa, sessantottino a Milano, dal suo ufficio guarda l’impianto fermo e dice che lì «non ci sono più i mali dell’attività produttiva meridionale». Ma c’era bisogno di cacciare la Fiom?