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 2012  giugno 22 Venerdì calendario

In un’epoca in cui l’editoria teme il futuro, fare tesoro delle migliori esperienze del passato proiettandole in avanti può essere un progetto coraggioso, controcorrente e per nulla nostalgico

In un’epoca in cui l’editoria teme il futuro, fare tesoro delle migliori esperienze del passato proiettandole in avanti può essere un progetto coraggioso, controcorrente e per nulla nostalgico. Del resto, Luca Formenton ha spesso evocato le parole di Giuseppe Verdi: «Torniamo all’antico e sarà un progresso». Così, il proprietario del Saggiatore, erede della tradizione mondadoriana più sperimentale, quella di Alberto, ci prova davvero e lancia la sua sfida ricreando una collana storica, la Biblioteca delle Silerchie. Era la primavera del 1958 quando Alberto Mondadori scriveva a William Faulkner per annunciargli la sua nuova iniziativa editoriale: «Tra l’altro, ho in progetto una piccola collana che ospiterà opere di narrativa e saggistica, nonché testi teatrali e poetici, scelti con criteri di estremo rigore e firmati esclusivamente da autori di primissimo piano». Ogni volumetto deve andare da un minimo di 40 pagine a un massimo di 128. Il nome di questa collana di «brevi libri attraenti e spesso illustri come il paesaggio della Versilia», derivava da una strada di campagna delle Alpi Apuane che nel ricordo del fondatore sembrava invitare a una poetica passeggiata. La silercula era un rametto di vetrice con cui si facevano bastoncini magici per scacciare malattie e spiriti maligni. Anima e artefice dell’iniziativa, selezionatore unico dei titoli e braccio destro di Alberto Mondadori a tutto campo fu Giacomo Debenedetti: «Uomo incantevole e ombroso, critico geniale, narratore sottile, maestro di quasi intimidente ancorché affabile umanità e intelligenza, in ogni momento della vita esempio di calda curiosità intellettuale», l’avrebbe definito l’amico editore. Le prime due uscite, nell’ottobre 1958, furono Lettera sul matrimonio di Thomas Mann e Storia di un romanzo di Thomas Wolfe, seguiti da Vita di Pascal di Madame Périer, da Ritorno in città di Giuseppe Raimondi, da Il vescovo di Prato di Giacomo Noventa. All’inizio del ’59 uscirà La pallida Zilphia Gant, uno dei racconti che lo stesso Mondadori chiese a Faulkner nella lettera citata. Di un’eleganza che si voleva «ispirata ai criteri dell’industrial design», capace di evocare «la carrozzeria e la sagoma delle auto utilitarie quando sono azzeccate», si trattava di libretti cartonati, copertine colorate con disegni astratti (in buona parte di Balilla Magistri), raffinatezza e solidità insieme, inconfondibili al tatto e alla vista, che nella varietà riflettevano il gusto congiunto dell’editore e del suo direttore letterario: apertura massima ai generi, tra diario, racconto, trattatello, poesia, saggio, critica d’arte. E agli autori: D.H. Lawrence, Andersch, Fitzgerald, Aragon, Saba, Emanuelli, Brandi, Green, Joyce, Valéry, Nabokov, Sereni, Bachmann, Cendrars, Luzi, Borges... A Debenedetti toccò scrivere le note editoriali (sessantotto fino al ’65), non in forma di quarta di copertina, ma di foglietto volante inserito all’interno di ciascun volume subito dopo il frontespizio. Questi testi brevi, usciti senza firma, a metà strada «tra le più tradizionali prefazioni (o postfazioni) e il più affabile risvolto (o quarta) di copertina», ha scritto Edoardo Sanguineti, non ambiscono «alle responsabilità interpretative del saggio introduttivo, ma non cedono a quei clamori celebrativi che risultano quasi editorialmente obbligati quando, quasi indiscretamente, si corre incontro all’utente come certi buttadentro di anche troppo energica e risoluta volontà seduttiva». Indiretta ma efficace denuncia di molte quarte di copertina che circolano oggi a piede libero in libreria. Ora le note di accompagnamento stilate da Debenedetti sono raccolte in un volume pubblicato da Sellerio con il titolo Preludi e una bella introduzione di Raffaele Manica. Il quale sottolinea, quasi fosse un segno del destino, che l’ultima nota debenedettiana pubblicata in vita è dedicata al celebre saggio di D’Arco Silvio Avalle sugli Orecchini di Montale (uscito nel dicembre 1965): analisi che, essendo tra i primi esempi della stagione strutturalista, il critico presenta esplicitamente come discutibile. Eccoci dunque alle nuove Silerchie, che si presentano con un gruppetto di quattro titoli annunciati in libreria dal 28 giugno: Pulp Roma di Tommaso Pincio, La magnifica orda di Alessandro Bertante, Acqua nera di Joyce Carol Oates, Ogni cosa è da lei illuminata della scrittrice svizzera Annemarie Schwarzenbach. Per ora siamo nell’ambito della narrativa: tra reportage grottesco e racconto visionario. E se son «silerchie» (di vetrice) rifioriranno.