Goffredo Buccini, Corriere della Sera 21/06/2012, 21 giugno 2012
DALLE AULE DI MANI PULITE A VIALE MAZZINI. TONINO E GHERARDO: COSI’ VICINI, COSI’ LONTANI
Si annusano da vent’anni, Gherardo e Tonino. Ma senza mai raggiungersi e nemmeno sfiorarsi: come una virtù e il suo proposito, come un’avanguardia di popolo e il popolo vero, che sempre segue arrancando.
Di Colombo si racconta che, durante una perquisizione della Finanza nello studio d’un avvocato in odore di corruzione, chiedesse una cucitrrrice, arrotando la «erre» radicalchic che mandava in visibilio la metà rosa del giustizialismo italiano: quando l’avvocato vide che la usava per pinzarsi l’orlo del jeans sdrucito, capì di essere davvero nei pasticci perché con quel pm francescano non si poteva certo trattare.
Di Pietro è viceversa sempre stato narrato dai suoi molti nemici come l’inventore della trattativa (manette-chiamata di correo-rilascio) e del suo Avatar trattativista Geppino Lucibello: trattativa penale seguita a una lunga e complessa trattativa morale con se stesso e coi propri bisogni di contadino emigrante affamato di promozione sociale. Quelli che non lo amano (e sono parecchi, dal tempo di Mani pulite) ne ricordano le amicizie nella cosiddetta Milano da bere, quel Pillitteri che lo chiamava «Ninì» assieme ai vari e variopinti Gorrini e D’Adamo, ma tralasciano di rammentare che lui alla fine li mise tutti sotto schiaffo, senza guardare in faccia a nessuno, in quei mesi del ’92 durante i quali gli italiani finsero di volere la palingenesi morale del Paese.
Colto, snob, bello da vedere con i riccioloni tristi e la pipa meditabonda Colombo: in definitiva sempre un po’ sconfitto, dai fondi neri dell’Iri, dalla P2, dalla Spectre; sgarrupato e sostanzialista Di Pietro, memorabili le sue grattate di caviglie in mezzo ai cronisti e il suo broccardo da opporre ai legali che cavillavano «in punto di diritto»: «Uh, ma in punto diritto, li hai presi o non li hai presi ’sti quattrini?». Solo un alchimista di anime e propensioni quale fu Saverio Borrelli in quegli anni poteva immaginare di mettere assieme quest’acqua e quest’olio e riuscire a farne una miscela. Quella è in verità la parte inusuale della storia, quel febbrile lavorio che unì, «nel nome del popolo italiano», un contadino di Montenero di Bisaccia e un alto borghese della Milano progressista: non certo i dissapori di queste ore sul consiglio d’amministrazione Rai, con un Tonino ormai tutto politico che, al netto dell’«orgoglio» per l’ex collega e del desiderio di «abbracciarlo», si spinge a definire Colombo «paravento per la lottizzazione», e con Gherardo che si rifugia, forse sdegnato, nel silenzio d’una boccata di nebbia.
È inutile cercare nella memoria tracce di scontri tra i due nei corridoi milanesi che, al quarto piano di via Freguglia, affacciarono per qualche tempo sulla rivoluzione immaginaria di Mani pulite. Dicono che Colombo tenda sempre ad arretrare di fronte all’irruenza e, quando quello strano collega che parlava con la proprietà giuridica d’un personaggio di Abatantuono gli comparve davanti, l’ex studente prodigio della Cattolica dovette credere di avere gli occhiali appannati. Tonino sprigionava una forza che per gli apologeti d’allora veniva direttamente dal risveglio della «grande proletaria» e, per i molti diffamatori successivi, promanava da oscure trame dei servizi segreti. Gherardo era capace tuttavia di contenerlo dentro la propria dottrina e soprattutto nelle «erre» nobiliari, «perrrché penso che bisogna rrragionarrci su». Fu ai suoi ragionamenti, nella sua casa milanese, che venne affidato un pranzo della pace, quando Berlusconi scese in campo e l’armonia venne incrinata dalla proposta indecente di Cesare Previti: portare Tonino nel governo del Cavaliere. Borrelli e Davigo furono determinanti per il «no», Colombo lo fu nel rendere quel «no» meno traumatico.
E certo la distanza fra i due non fu soltanto visibile nel famoso corridoio della Procura: Di Pietro isolato nell’ala opposta a Borrelli, Colombo esibito nella stanza più vicina al grande capo. Quando Tonino lasciò la toga, lo fece in favore di telecamera e forse sollecitato dai rilievi deontologici dell’inchiesta bresciana da cui pure uscì prosciolto, per poi mettere all’asta della politica il suo straordinario talento onnivoro; Gherardo, più di recente, lo ha fatto con discrezione, e se la sua agenda è zeppa d’appuntamenti da qui a due anni basta scorrere le righe per trovare soltanto scuole medie, elementari, licei, 400 incontri l’anno sulla base dell’idea che la vera vittoria non viene dal codice penale ma dalla crescita culturale d’una generazione (non a caso, quando gli chiesero chi mai avrebbe sconfitto Cosa Nostra, Gesualdo Bufalino rispose: «Un esercito di maestri elementari»). «E però se dovessi fare una guerra con qualcuno, vorrei Tonino al mio fianco», dicono ancora i colleghi nostalgici di Milano. Ci fu un tempo che Tonino era quasi al fianco di Gherardo. Giorni d’applausi e fiaccolate, di piazzisti e sicofanti. Poi, ciascuno restò solo, a sbrigarsela con la vita.
Goffredo Buccini