Riccardo Luna, la Repubblica 20/6/2012, 20 giugno 2012
L’INVENTORE DELLA PLASTICA PULITA
«La cosa più buffa di questa storia è che io non sono uno scienziato e nemmeno un laureato in chimica. Sono soltanto un grafico pubblicitario che un giorno si è detto che doveva esserci un altro modo per fare la plastica. Un modo che non inquinasse il pianeta per migliaia di anni. Allora sono andato su Internet a cercare fino a quando quel modo l’ho trovato». Questa è la storia di una rivoluzione fatta in casa, scoperta per caso e destinata forse a cambiare le cose. Gli oggetti della nostra vita. L’artefice si chiama Marco Astorri, ha 43 anni, tre figli, una pettinatura che lo fa assomigliare al protagonista muto di
The Artist
e un’azienda che sta facendo discutere il mondo: la BioOn sta a Minerbio, a 40 minuti da Bologna. Da qualche
mese ogni settimana c’è una processione infinita verso questo misterioso laboratorio in mezzo ai campi: bussano i capi delle grandi multinazionali della chimica, ma anche i produttori di telefonini, personal computer e televisori, componenti per le automobili. Insomma tutti quelli che fanno prodotti usando la vecchia plastica. Vengono, ascoltano, guardano le ampolle piene di misture dolciastre, i fermentatori di metallo riflettente. Poi spalancano gli occhi e la domanda che si fanno è: possibile che questo scienziato-fai-da-te, questo hacker con la scatola del piccolo chimico sotto il braccio abbia trovato la formula magica per farci vivere davvero “senza petrolio” (il petrolio, com’è noto, è la base di tutte le plastiche e l’origine dei problemi a smaltirle dato il suo tasso terribilmente inquinante, vedi la diossina)?
Ebbene sì, è possibile, perché è esattamente quello che sta accadendo. La storia inizia nel 2006. E inizia naturalmente con un pezzetto di plastica. Anzi con migliaia di pezzetti di plastica. Sono gli
skypass
che gli sciatori lasciano distrattamente in mezzo alle neve a fine giornata. Solo che poi in primavera la neve si scioglie, gli
skypass
no: quei pezzetti di plastica restano a inquinare l’ambiente per una vita, anzi per migliaia di anni. Marco Astorri e il suo socio francese Guy Cicognani di quegli
skypass
sono in un certo senso colpevoli, visto che li producono. Per la precisione, realizzano le micro-antennine che aprono i tornelli (Rfid). Ed è facendo questo lavoro che iniziano a chiedersi se non ci sia un modo per fare una plastica totalmente biodegradabile. Una plastica che si sciolga in acqua. Come la neve, appunto. Astorri e Cicognani non sono i primi a pensarlo ovviamente. Proprio in Italia Catia Bastioli, dal 1990 e negli stabilimenti della Novamont a Terni, ha iniziato a produrre la MaterBi, plastica a base di amido di mais. Ha avuto un notevole successo, al punto che alle prossime Olimpiadi di Londra i piatti, i bicchieri e le posate, in tutto alcune decine di milioni di pezzi, saranno di bioplastica italiana. Un grande orgoglio nazionale di cui andare fieri. Il mais però è un alimento: usarlo per fare la plastica vuol dire farne salire il prezzo e si è visto con i biocarburanti di prima generazione come questo possa essere problematico. Inoltre, per quanto riguarda la biodegradabilità, la provincia di Bolzano ha fatto presente che i sacchetti che dal 1° gennaio la legge ci impone di usare al supermercato creano in-
ciampi agli impianti di compostaggio dei rifiuti. Insomma, forse si può fare meglio.
Ma torniamo al 2006. Ricorda Astorri: «Abbiamo chiuso con gli skypass. Ci siamo comprati un computer, un iMac, l’abbiamo collegato alla Rete e abbiamo iniziato a cercare qualcosa di nuovo». La caccia al tesoro dura poco e finisce in un’università in mezzo all’Oceano Pacifico dove un gruppo di ricercatori sta sperimentando un modo per produrre la plastica con gli scarti della lavorazione delle zucchero: il melasso, sostanza
che oggi ha un costo per essere smaltito ma può diventare invece la materia prima per una plastica davvero bio. Astorri e Cicognani intuiscono che quella pista è quella buona,
prendono un aereo, investono la metà dei loro risparmi per comprare quel brevetto (250mila dollari), ne aggiungono una serie di altri sparsi nel mondo e in un anno sono pron-
ti a realizzare la molecola descritta dal biologo francese Maurice Lemoigne nel lontanissimo 1926: il PHA. Di che si tratta? A sentire la spiegazione del capo del laboratorio, Simone Begotti, un quarantenne che per anni si è occupato di fermentazione in aziende biofarmaceutiche, la ricetta è un segreto di Stato ma il procedimento non è complesso: «Si tratta di affamare e poi far ingrassare dei batteri. In poche ore quel grasso diventa la polvere con cui facciamo la plastica ». Perché ci sono ci sono voluti più di 80 anni per ripartire da lì? «Perché in quei tempi ci fu il boom del petrolio: fare plastica in quel modo era facile ed economico, i costi per l’ambiente non venivano tenuti in considerazione », sostiene Astorri.
Nel 2007 il nuovo polimero viene battezzato Minerv, in omaggio al posto dove sorge il laboratorio ma anche a Minerva, dea romana della guerra e della saggezza «visto che sarebbe saggio fare questa guerra in nome dell’ambiente». Un anno dopo arriva la certificazione internazionale: «Il Minerv è biodegradabile in terra, acqua dolce e acqua di mare», attestano a Bruxelles. Astorri lo spiega così: «In 10 giorni i granuli di MinervPHA si dissolvono in acqua senza alcun residuo ». Miracolo. Si decide così di fare una
startup
anche qui cambiando le regole: niente soldi pubblici e soprattutto niente soldi dalla banche: «Abbiamo fatto un patto con i contadini», racconta Astorri. L’accordo è con la cooperativa agricola emiliana
CoProB che produce il 50 per cento dello zucchero italiano. Oltre a tantissimo melasso. Saranno loro, i contadini emiliani, i titolari del primo impianto BioOn che aprirà a fine anno: «È la fabbrica
a chilometro zero. Sorge dove stanno le materie prime», spiega Astorri che con l’aiuto del colosso degli impianti industriali Techint, punta a replicare il meccanismo in tutto il mondo: la
fabbrica in licenza. Un paio di impianti, a forma di batterio, disegno dell’architetto bolognese Enrico Iascone, apriranno in Europa, uno negli Stati Uniti.
La svolta è arrivata un anno fa
quando in laboratorio il mago Begotti è riuscito per la prima volta a realizzare un PHA con proprietà molto simile al policarbonato. Non la classica plastica dei sacchetti della spesa, quindi, ma la plastica dura e malleabile di cui sono fatti tanti oggetti della nostra vita quotidiana. Il primo a crederci è stato il presidente di Floss che ha voluto replicare una celebre lampada del design italiano firmata Philippe Starck,
Miss Sissi.
Presentazione solenne lo scorso 18 aprile al Salone del Mobile, poi un’escalation continua: secondo Astorri tra un anno il MinervPHA sarà negli occhiali da sole italiani, nei computer californiani, nei televisori coreani e persino nelle confezioni di merendine per bambini. «Tutti mi dicono che sono seduto su una montagna d’oro ma non è così che mi sento. Mi sento su una scala di cui non si vede la fine».
L’inizio in compenso si vede benissimo. Era il 1954 e a pochi chilometri da Minerbio, Ferrara, negli stabilimenti della Montecatini, un grande chimico italiano scopriva la regina delle plastiche, il polipropilene isotattico, noto come il Moplen nelle reclame dell’epoca con Gino Bramieri. Il 12 dicembre 1963 Giulio Natta e il chimico tedesco Karl Ziegler ricevevano il premio Nobel. Nella motivazione si legge: «Le conseguenza scientifiche e tecniche della scoperta sono immense e ancora non possono essere valutate pienamente». Sarebbe la seconda volta che un italiano reinventa la plastica.