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 2012  giugno 20 Mercoledì calendario

DOPO I THRILLER, IL MIO SOGNO È IL JAZZ


Incontro lo scrittore americano Michael Connelly in una suite al quinto piano dell’Hotel De Russie in via del Babuino a Roma. Ieri sera alla Basilica di Massenzio ha letto un testo inedito intitolato Biancaneve 1992 per la nona serata del Festival «Letterature » e sta accompagnando la pubblicazione italiana del suo ventunesimo thriller: Il respiro del drago (Piemme, pp. 334, euro 19,90), uscito in America nel 2009. Nel paradiso ad aria condizionata del salottino, Connelly si sottopone alle interviste come un giocatore di poker che elimina avversari nel torneo. Conosce il meccanismo delle interviste promozionali come un marine un fucile d’assalto, è un professionista che non si dà arie nonostante i milioni di libri venduti in tutto il mondo, alla fine dell’intervista si alza e si compiace che la nostra chiacchierata sia stata «filosofica». Se fosse stato uno scrittore francese l’avrei mandato a quel paese, ma, peccherò d’ingenuità, Connelly con me ha detto tutta la verità e nient’altro che la verità. Qual è stato l’impulso che l’ha portata a scrivere il primo thriller? «Mi piaceva leggere i thriller e, soprattutto, erano il genere che leggeva mia madre. Mia madre è stata la mia prima e più importante influenza letteraria. Quando ho cominciato a cimentarmi col thriller non avevo un piano a lungo termine. Per quattro anni, mentre facevo il reporter di nera per il Los Angeles Times, ho scritto due romanzi, di notte. Non li ho mai mandati a nessuno. È stato un po’ il mio apprendistato. Con il terzo romanzo ho sentito che avevo compiuto una svolta, avevo trovato il personaggio, Harry Bosch, e la città, Los Angeles, e quello è diventato La memoria del topo, il mio debutto». Bella questa storia dell’influenza materna. In molti scrittori, anche non di thriller, c’è un’influenza della madre. In certi procedimenti sembra non esserci distinzioni di generi. «Mia madre leggeva tantissimo, era davvero preparata. Mi giudicava, fu lei la prima barriera che dovetti superare, prima ancora degli editori». Nel penultimo libro pubblicato in Italia, L’uomo di paglia, più ancora dell’intreccio investigativo mi ha colpito la precisione con cui ha descritto la crisi di una gloriosa testata giornalistica come il Los Angeles Times. Come vede il futuro del giornalismo tradizionale? «Il giornalismo riuscirà a sopravvivere se si concentrerà più sulle questioni locali, addirittura di quartiere, perché non ha senso mantenere inviati all’estero quando il miglior corrispondente è internet. Si dovranno approfondire storie e notizie delle comunità vicine. Non penso che la società o il giornalismo, che deve raccontarla, siano diventati automaticamente migliori grazie alla rete. I vecchi giornalisti avevano esperienza, competenza, l’informazione digitale tende invece a polarizzare le questioni, a esasperare. Si dice che il vecchio giornalismo era il cane da guardia del potere, e lo era, perché era efficacissimo ad esempio nello smascherare la corruzione. Non mi sembra che il giornalismo digitale sia altrettanto interessato a questo. Comunque ho vissuto da reporter la crisi dei giornali, era una situazione surreale, la newsroom sembrava una città fantasma, si svuotava sempre di più. Per sentire un po’ di rumore dovevo andare alla macchinetta del caffè». Questo clima spettrale emerge molto bene ne L’uomo di paglia, che inscena queste due minacce, l’assassino e i licenziamenti. Invece ne Il respiro del drago il nemico è la Triade, cioè la mafia cinese. C’è una specie di avvertimento all’invadenza dell’economia e influenza della Cina nella società americana? «Mi piacerebbe dire che sì, c’è una chiave geopolitica, ma ovviamente no, al contrario tutto è nato da un mio viaggio a Hong Kong, città della quale sono rimasto incantato. Avevo intenzione di dare una svolta ai miei thriller con protagonista Harry Bosch, tirarlo fuori dalla sezione omicidi di Los Angeles, far continuare la serie in un modo originale, e Hong Kong come nuova ambientazione mi è sembrata perfetta. Da lì è nata l’idea di una figlia che viveva lì con l’ex moglie e che lui vedeva pochissimo, e che viene rapita dalla Triade. Direi che Il respiro del drago è il mio libro più serio, quello dove oltre l’aspetto investigativo ci sono elementi di novità maggiori. L’altro libro che considero di svolta nella serie è Lame di luce». Ha sentito di questa recente serie di omicidi di incredibile efferatezza? Il pornoattore canadese cannibale, lo studente del Maryland che anche lui ha divorato cuore e cervello della vittima? Sono fatti che hanno colpito la sua immaginazione? «Come sempre la realtà è più strana della fiction. Ma io nel mio lavoro devo fare attenzione a essere credibile. Non tutto ciò che accade è credibile. Non sapevo dell’assassino canadese e in generale cerco di non farmi influenzare dalla realtà e soprattutto non sono influenzato dalla quantità di crimini commessi ogni giorno. Il mio punto di riferimento è Harry Bosch, è il detective, è il buono il mio punto di riferimento. Se leggi i libri di Thomas Harris è evidente che il protagonista è Hannibal Lecter, il cattivo. Per me è completamente diverso, io sono dalla parte del buono». Sant’Agostino diceva che il male non esiste, perché è solo la privazione del bene. Cos’è per lei il male? «Questa frase di Agostino mi sembra un modo molto educato di porre la questione. Io non so rispondere a una domanda così, perché sono come Harry Bosch, che non si interroga su cos’è il male, semplicemente deve fare pulizia quando il male scatena i suoi effetti. Da dove nasce il male? Chi può dirlo? Harry Bosch ha avuto una vita difficile e svantaggiata, la stessa per cui altri sono diventati serial killer, ma lui ha avuto un futuro completamente diverso. Perché? Forse qui entra in gioco il libero arbitrio. È vero che chi ha subito violenze da bambino, specie violenze sessuali, poi tende a ripeterle da adulto sugli altri. Ma anche qui, non tutti lo fanno. C’è un che di imponderabile che divide i destini. Comunque direi che, anche se non sappiamo definirlo, ognuno di noi riconosce il male quando lo vede». Ci sono scrittori di thriller che ammira e che legge? «La verità è che i thriller sono la mia professione, dunque leggo molto meno di prima, anche perché quando leggo continuo a lavorare, a vedere la struttura investigativa, la costruzione della suspense, e così via. Da quando scrivo regolarmente è così: la lettura è quasi sparita. Certo ci sono libri che per me sono capolavori del genere. Ad esempio La sorellina di Raymond Chandler. Il modo in cui Chandler descrive Los Angeles mi ha influenzato enormemente». Dal suo esordio, nel 1992, lei scrive un thriller all’anno. Non le è mai venuto il desiderio irrazionale di scrivere qualcosa di diverso, di uscire dal sentiero del genere? «No. Io credo nelle possibilità del thriller, soprattutto nel fatto che il thriller mi permette di costruire un’intelaiatura che posso riempire con ciò che voglio. Certo, la parte dell’indagine è per così dire obbligata, è una costrizione, ma il detective può andare dove vuole. Può vedere nuove città, conoscere gente d’ogni tipo. E questo talvolta mi ha portato quasi a uscire dalla struttura del thriller. Ad esempio c’è stato un momento in cui ho approfondito molto i gusti musicali di Harry Bosch, il jazz, che è una mia grande passione. E così ho pensato che un giorno potrei scrivere un romanzo sul jazz». Con o senza indagine poliziesca? «Senza». Mi domando se il suo editore sarebbe contento. «Beh, ho un contratto per altri quattro thriller. Dunque, se scrivessi un romanzo sul jazz, diciamo che sarebbe un po’ meno contento».