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 2012  giugno 20 Mercoledì calendario

LA GIUSTIZIA DI LORSIGNORI

Più particolari emergono sulle interferenze del Quirinale nell’inchiesta di Palermo sulla trattativa Stato-mafia a gentile richiesta del signor Nicola Mancino, più si scatena l’Operazione Casino. È una vecchia tecnica, utilissima a far perdere l’orientamento ai cittadini, così nessuno capisce più chi ha fatto cosa. Ma a questo punto, di fronte alle intercettazioni telefoniche depositate dalla Procura di Palermo che oggi pubblichiamo, i casi sono soltanto due: o Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del Presidente della Repubblica, millantava credito con Mancino, raccontandogli che Giorgio Napolitano si era “preso a cuore” le sue lagnanze contro i pm di Palermo, al punto di parlare del suo caso con il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso perché facesse qualcosa; oppure D’Ambrosio diceva la verità, dunque davvero il Capo dello Stato è personalmente intervenuto con Grasso per conto di un testimone interessato e poi indagato per reticenza. Nel primo caso, D’Ambrosio dovrebbe avere la sensibilità istituzionale di dimettersi. Nel secondo caso, beh, dite un po’ voi chi dovrebbe dimettersi. Checché si affannino a sostenere i portavoce ufficiali o ufficiosi del Quirinale, infatti, qui c’è da rimuovere un macigno grosso così: il trattamento privilegiato che un potentissimo ex politico come Mancino ha ottenuto dalla più alta istituzione dello Stato in una vicenda che l’ha visto inizialmente nelle vesti di testimone, e poi di indagato per falsa testimonianza, per giunta su una vicenda fra le più gravi e drammatiche della storia repubblicana: le trattative fra Stato e mafia che fecero da sfondo alle stragi mafiose del 1992-’93. Trattative criminali, ma anche criminogene visto che indussero legittimamente i boss di Cosa Nostra a ritenere che le stragi “pagassero” e, anziché fermarle, le incentivarono e le moltiplicarono. Trattative nate non – come dice qualche facilone – per “ragion di Stato”, visto che lo Stato non ne ebbe alcun vantaggio; ma per una bieca e banale “ragion di chiappe”, cioè per salvare la pelle ai politici che, dopo l’assassinio di Lima, sapevano di dover fare presto la stessa fine. E allora mobilitarono i vertici del Ros a parlare con i mafiosi, anche al costo di sacrificare la vita di Borsellino, della scorta e poi di altri inermi cittadini falciati dalle stragi del ’93. Anche al costo di salvare 400 mafiosi dal 41-bis; di trasformare Provenzano in un padre della Seconda Repubblica, ovviamente intoccabile; di consegnare le istituzioni democratiche al ricatto mafioso, grazie a governi convinti a buon diritto di dover “convivere con la mafia”. Sarebbe bello se le cose fossero semplici e innocenti come le descrive Carlo Federico Grosso su La Stampa: il Colle non avrebbe fatto “nulla per salvare in qualche modo ai politici”, anzi avrebbe seguito scrupolosamente la legge sollecitando il Pg della Cassazione a vigilare sull’“opportuno coordinamento delle indagini” nel quadro della “proficua collaborazione istituzionale”, e allora “che c’è di strano?”. C’è di strano che il Quirinale non ha alcuna voce in capitolo sull’eventuale “coordinamento” delle indagini (compito che spetta al Pna e, in casi estremi, al sovraordinato Pg di Cassazione). C’è di strano che il Quirinale s’è mosso su pressante richiesta del signor Mancino, testimone terrorizzato di diventare indagato. E c’è di strano che – notizia di oggi – il consigliere di Napolitano parla con Mancino non solo di “coordinamento”, ma addirittura dell’ipotesi di “avocazione”: cioè dello scippo dell’indagine alla Procura di Palermo, anche se Mancino non vorrebbe arrivare a tanto per motivi di immagine. Dopodiché il Quirinale scrive al Pg della Cassazione Ciani. Il quale convoca Grasso in una riunione in cui si parla proprio di “avocazione”. Grasso però non la attiva perché “non registra violazioni” dei pm di Palermo. Dunque tutta la mobilitazione del Quirinale e del Pg è basata sul nulla (i piagnistei di Mancino). Ecco cosa c’è di strano: che la legge, per lorsignori, non è uguale per tutti.