MARCO BELPOLITI, La Stampa 20/6/2012, 20 giugno 2012
A ciascuno il suo Typo - Sapete in che carattere è scritto l’articolo che ora state leggendo? Probabilmente no
A ciascuno il suo Typo - Sapete in che carattere è scritto l’articolo che ora state leggendo? Probabilmente no. Forse è solo una curiosità, dal momento che nessuno, salvo gli addetti ai lavori, vedono il carattere usato ne La Stampa (il Benton), nel romanzo che state leggendo, sui cartelli stradali o nella pubblicità che avete appena guardato. Ma se provate a fare come Cyrus Highsmith, vi troverete di sicuro nei guai. Alcuni anni fa questo disegnatore di caratteri newyorkese decise di passare un giorno senza incontrare l’Helvetica, uno dei caratteri più diffusi al mondo. Disegnato nel 1957, è versatile, senza grazie, sobrio e leggibile, buono per tutti gli usi e soprattutto coetaneo di due importanti fenomeni del XX secolo: i viaggi di massa e il consumismo. Appena alzato Cyrus non riesce a vestirsi con i soliti indumenti: le istruzioni di lavaggio sono scritte in Helvetica; trova solo una tuta militare e una vecchia T-shirt; a colazione è costretto a bere tè giapponese e a mangiare frutta fresca; non può leggere il New York Times o salire sulla metropolitana; per fortuna trova un autobus senza. Per mangiare va dritto a Chinatown; sul computer apre la tendina e cerca un altro carattere, ma poi non riuscirà a navigare nel web; così fatica con le banconote e non usa la carta di credito. A sera, al ritorno, rinuncia al televisore, perché i comandi sono in Helvetica, sceglie un volume composto in Electra, e infine si addormenta. L’arrivo di questo carattere nel mondo della comunicazione – i caratteri sono una fondamentale interfaccia con il mondo – ha cambiato la vita di molti. Oggi, a distanza di quasi sessant’anni, sappiamo che ha funzionato perché veicolava un’idea di onestà, fiducia, e soprattutto è privo del dispotismo di molti altri caratteri: Helvetica è l’alfabeto della moderna democrazia di massa. In questo ha avuto un fenomenale concorrente: l’Univers. Nel medesimo anno, Adrian Frutiger, svizzero anche lui, disegnò a ventotto anni l’altro carattere che ha dominato il mondo sin qui, per quanto oggi ci appare un po’ rigido e severo. Sto desumendo tutte queste informazioni da un libro brillante e colto, Sei proprio il mio typo (Ponte alle Grazie, 364 pag., 22 euro) di Simon Garfield, pieno d’informazioni e di storie di uomini e di caratteri, ovvero di font, come si dice oggi, anche se in italiano la parola indica solo i caratteri digitali, ma nel resto del mondo oramai si dice solo così. Le appartengo a quelle cose importanti ma invisibili. Se si tratta di un buon carattere – ben disegnato, adatto, godibile –, mentre si legge non lo si vede. Nel corso dei 560 anni in cui esistono, questa è sempre stata la regola principale. Ma c’è anche un altro aspetto, il gusto, che poi coincide con la popolarità com- provata dal consumo di massa. Zuzana Licko, disegnatrice californiana, creatrice con Rudy VanderLans di Emigre , la rivista di tendenza che ha ispirato le ultime generazioni di graphic design, sostiene che «si legge meglio quello che si legge di più», dando ragione a uno dei padri della moderna tipografia Eric Gill: «La leggibilità, in pratica, è semplicemente ciò cui si è avvezzi». Facciamo l’esempio di EasyJet: sulle fiancate degli aerei della compagnia è scritto usando il Cooper Black, utilizzato anche dalle scarpe Kickers. Trasmette, ed è la prima volta, l’idea che un aereo può essere divertimento, e non più precisione, esattezza, serietà. È un carattere predigitale, degli Anni Venti del secolo scorso, quel tipo di carattere «che gli oli di una lampada di lava formerebbero se la lampada andasse in frantumi sul pavimento». Naturalmente è solo un brand, e non un giornale o un libro; del resto, ci sono infatti font che sono destinate a essere viste anziché lette. Frutiger ha detto che «il lavoro del disegnatore di caratteri è simile a quello del sarto: vestire l’immutabile forma umana»; e Alan Fletcher, designer di libri, ha aggiunto: «una font è un alfabeto con una camicia di forza». Al termine del libro di Garfield c’è una tavola dei caratteri più diffusi al mondo modellata sulla tavola degli elementi di Mendeleev. In alto, insieme a Helvetica e Univers, c’è Futura, disegnato da Paul Renner nel 1924. Lo usa la Volkswagen per la sua pubblicità e la targhetta lasciata sulla Luna dall’Apollo 11 è composta con la creatura di Renner; anche Ikea lo ha utilizzato a lungo, fino a che non l’ha sostituito con il Verdana, suscitando una grossa controversia tra i suoi clienti. Che i caratteri, o font, siano un elemento non secondario nella nostra cultura contemporanea lo mostra la storia di Steve Jobs, studente fallito, ma frequentatore di un libero corso di calligrafia, dove imparò a utilizzare le font, a distinguerle e a maneggiarle. Il primo computer Macintosh ne metteva per la prima volta un’ampia gamma a disposizione; da quel momento le lettere e i caratteri tipografici sono entrati – o rientrati – nella nostra vita in modo preponderante. Prima di tutto per un fatto estetico, ma anche economico, e persino politico. Chi si ricorda il Chicago dei primi menù Apple, poi finito negli iPod? E come fare a meno del Verdana o del Georgia, disegnati da Matthew Carter, a mio parere, e non solo mio, il migliore e più leggibile font per la videoscrittura? E poi il Gotham, il carattere utilizzato da Barack Obama e da Hollande per le loro vincenti campagne elettorali? L’ultimo personaggio con cui si congeda Garfield è il giovane Luc(as) de Groot, olandese trapiantato a Berlino: ha disegnato il Calibri per la Microsoft, un carattere senza grazie, arrotondato e duttile; lo utilizzano anche Outlook, PowerPoint e Excel, e ha soppiantato il tradizionale Times New Roman e l’Arial. Calibri governa il mondo, almeno per ora. Non credete che sia venuto il momento di saperne di più sulle font?