Annalisa Bruchi, La Stampa 21/6/2012, 21 giugno 2012
Come è che ha deciso di occuparsi di droga? «Beh, io lo devo a un signore su una panchina di Torino
Come è che ha deciso di occuparsi di droga? «Beh, io lo devo a un signore su una panchina di Torino. Avevo diciassette anni, andavo a scuola per prendere un diploma in telefonia e telegrafia, lo vedevo ogni giorno, tre cappotti addosso, la sua casa un sacco di tela di iuta, ma leggeva sempre un libro e con quelle matite blu e rosse da una parte lo sottolineava. Un giorno sono sceso e ho detto: “Signore, venga, vado a prendere un caffé”, e questo non mi rispose. Dopo dodici giorni ha cominciato a rispondermi qualche cosa. Era un medico. Un medico che un sabato sera non era di reperibilità, doveva essere reperibile, non di servizio in un ospedale di un piccolo paesone del nord Italia, una persona molto equilibrata, molto amata, molto generosa, molto sobria - quella sera è andato a casa di amici, per la prima volta ha bevuto, ha bevuto tanto. È arrivata una chiamata da un paese dove non succedeva quasi mai nulla, lui va in questo Pronto Soccorso, arriva ubriaco, e la tragedia nella tragedia è che la moglie di un suo caro amico, madre di tre figli, muore. Tutti hanno confermato che sarebbe morta per la gravità della situazione, ma lui nella sua testa si è convinto che se lui fosse stato sobrio...». L’avrebbe salvata. «Sì. Qualcosa gli si è squilibrato nella testa ed è finito su una panchina di Torino. E quest’uomo, con la sua competenza, con quella sua professionalità, con quella sua sofferenza, un giorno io avevo diciassette anni e mi dice: “Vedi quei ragazzi che entrano in quel bar? Sai cosa fanno? Prendono dei farmaci, psicofarmaci, ci bevono gli alcolici sopra, fanno la bomba e si drogano”. Non si parlava ancora di droga in questo senso, nel nostro paese. Lui sarebbe morto cinque mesi dopo. Io ho sentito a diciassette anni che quell’invito a fare qualche cosa non poteva entrare qui e uscire di là. E quindi ho cominciato prima da solo, tre anni dopo è nato il Gruppo Abele. Ora ha 45 anni della sua storia». In quella Torino lei era però arrivato molti anni prima, da Pieve di Cadore, con la sua famiglia. Lei ha raccontato che aveva degli inizi molto difficili. Lei per i primi anni ha vissuto anche in una baracca. «Era la più bella casa della mia vita». Una baracca? Perché? «Perché ero piccolo e gli operai mi coccolavano. Mio padre aveva il lavoro ma non la casa. L’impresario gli aveva detto: “Se vuole, signor Ciotti, può usare quella baracca del cantiere...” Noi vivevamo dentro il cantiere, nell’attuale Politecnico di Torino. Mio padre faceva il muratore, poi ha fatto il capomastro. Ma il fatto stesso di vivere dietro lo steccato di una baracca, era etichettato e giudicato dalla gente. Io dovevo andare in prima elementare alla scuola del quartiere, che è una zona bene di Torino, e lo dico con un senso di grande e profondo rispetto. Mia madre andò dalla maestra e le disse: “Signora, almeno per i primi mesi io non posso comprare a mio figlio il grembiule e il fiocco previsti dal regolamento” Questo mi ha creato un po’ di problemi, mi sentivo diverso, tutti mi chiedevano come mai non avevo il grembiule e avevo il fiocco. E mi chiedevano dove abitavo. Io non osavo dire che stavo in quella baracca perché mi vergognavo. E allora dicevo che abitavo in un certo palazzo. Ma un mio compagno piccolo piccolo intervenne: “Ci abito io, ma io non ti ho mai visto!” Però il dramma è venuto dopo venti giorni di scuola perché la maestra è arrivata molto arrabbiata, tutti disturbavano in classe, ma lei se la prende solo con me che ero il più vulnerabile. Io non capivo perché e devo averle fatto un gesto con le mani per dire: “Cosa vuole? Non c’entro niente”. Lei, poveretta, in un momento di fatica mi dice: “Cosa vuoi tu, montanaro?” Detto in un modo liquidatore». E un po’ sprezzante… «Io così piccolo, già con una sofferenza dentro. I compagni ridevano. Io ricordo che ero tutto rosso ho cercato di comunicare con la maestra. Non ci sono riuscito. C’erano i vecchi banchi di una volta, con il calamaio incastrato. Ne ho preso uno e gliel’ho tirato. Disgrazia vuole che l’ho colpita in pieno. Espulso! Accompagnato a casa. Mia madre mi diede - e per questo le sarò sempre riconoscente - una sonora lezione. Perché alla violenza, anche se verbale della maestra, non si risponde con violenza. Ma era un modo di reagire». Probabilmente derivava da mesi di frustrazione. «Di fatica. Ma il vero problema alle 12,30 all’uscita di scuola dei miei compagni: “Sai, mamma, cosa è successo oggi?” “Dimmi, cicci.” “Il nostro compagno ha tirato il calamaio alla maestra”. “Ah, povera maestra!” “Sai, mamma, che con l’inchiostro ha sporcato il vestito della maestra?” “Ah, povero vestito della maestra. Come si chiama il tuo compagno?” “Ciotti.” “Guai se ti vedo con quel compagno”». E quindi è stato emarginato… «È stata una ferita profonda. Ringrazio la dignità e la forza di mia madre. E poi quella parrocchia dove ho trovato in un giovane sacerdote un punto di riferimento. Ma quella ferita mi ricorda le ferite anche, e il pericolo anche oggi, di facile etichette che vengono messe sulla storia di altre persone». Don Luigi, lei di strada ne ha fatta tanta da quel calamaio che ha tirato alla maestra. Ha affrontato il problema della droga, ha fondato il Gruppo Abelee,dalladroga, èpassatoa Libera e alla lotta alla mafia. Perché? «Il Gruppo Abele non è stato solo il problema della tossicodipendenza, che è la facile etichetta che la gente ci ha messo nell’arco degli anni. Il lavoro con la tratta, la prostituzione, il problema dell’abuso di sostanze alcoliche, non solo, di tutte le dipendenze. Ora raccogliamo persone che sono dipendenti dal gioco d’azzardo, da Internet… Ci sono quindi una lettura anche dei cambiamenti e le risposte ai nuovi bisogni e alle nuove dipendenze». Quindi diciamo che il passaggio dalla droga alla mafia è stato naturale? «Sì perché già ci occupavamo del narcotraffico. Ma dopo le stragi di via D’Amelio e di Capaci, la morte di Falcone e Borsellino, e quei stupendi ragazzi della polizia di Stato che li accompagnavano... In quelle due giornate io ero in Sicilia proprio a lavorare sul problema delle dipendenze, il 23 maggio era un sabato, il 19 luglio era domenica. E in quel momento uno sente prepotente dentro di sé di dover continuare a stare sulla strada, con i poveri, con gli ultimi - questo per me è fondamentale nella quotidianità. Ma nello stesso tempo di dire: “Ma perché non mettiamo insieme le migliori forze del paese?” Non basta fare cortei, fare manifestazioni, le lenzuola da tutte le parti se poi non c’è veramente una continuità di interventi. E allora nasce Libera, nasce in questo senso, nasce in questo modo, mettendo insieme tante realtà, tante associazioni, tanti gruppi». "La prima elementare" "Era in un quartiere bene e i compagni ridevano di me Io così piccolo sentivo già una sofferenza dentro L’uomo sulla panchina" "Lui era stato medico, io avevo 17 anni: mi fece vedere quelli che si drogavano quando nessuno ne parlava L’impegno quotidiano" "Cerchiamo, al di là delle etichette, di dare risposte ai nuovi bisogni e alle nuove tossicodipendenze"