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 2012  giugno 21 Giovedì calendario

GIANNI CLERICI

«Sembra quasi che abbiamo vinto la guerra». Gianni Brera e Mario Fossati mi guardarono, benevoli zii, come si guarda un nipotino sciagurato. Loro, una guerra che non gli piaceva, avevano dovuto subirla, uno nell’Ottavo Fanteria decimato per quattro quinti sotto la neve russa, l’altro da paracadutista prima, poi sulle colline dell’Oltrepò dov’era comandante dei partigiani il nostro direttore del Giorno, Italo Pietra. Io ero appena tornato in redazione dopo la vittoria di Livio Berruti, che avevo intervistato
per primo, grazie a un mio
modesto passato azzurro, che mi assicurava la collaborazione dei custodi, e quindi qualche anticipo nel fiondarmi in pista.
Quel che più mi aveva affascinato, di Livio, al di là del record mondiale fu il Lei con il quale, pur affannato, si rivolgeva agli intervistatori. Ma non solo l’eleganza di quella che fu forse, la più memorabile delle nostre tredici medaglie d’oro, mi aveva incantato. Libero, come incredibilmente mi lasciavano,
di scrivere quel che volessi, anche grazie all’inglese che allora non era tanto comune tra i giornalisti, avevo incontrato e parlato a personaggi che oggi si definiscono mitici. Avevo assistito alla finale dei cento stile libero ascoltando le grida di Liz Taylor, ma confesso che ancor di più mi aveva rapito il dialogo tra la nera (allora si diceva negra, senza offesa) Wilma Rudolph, record nei cento, e la medaglia d’oro alla quale parlava quasi fosse la sua bambolina.
«Oh my medal, my medal, I love you!». In una successiva intervista, l’incantevole Wilma mi aveva chiesto se potessi portarla un po’ fuori dallo stadio nel quale aveva appena corso in undici secondi, e, quasi incredulo ma pieno di speranze, le avevo fissato un appuntamento al quale ero giunto al volante della mia elegantissima 500 Giardinetta. Ma le mie speranze di gloria si erano dissolte all’apparire di un suo compagno, il centista Ray Norton che, pur gentilissimo, mi aveva costretto in pratica al ruolo di autista. Per visitare non dico il Colosseo, ma incredibilmente il mercato di Porta Portese.
Tra le altre memorabili vicende del mio esordio olimpico, non posso certo dimenticare l’arrivo a Anzio dello yacht sul quale faceva straordinaria mostra di sé la Regina delle Fate, e insieme principessa di Monaco, Grace Kelly. Avendo reportato sul suo matrimonio, mi destinarono logicamente allo sbarco. Grace reggeva tra le braccia il piccolo Alberto, che ho rivisto di recente a Montecarlo, bello stempiato, mentre mi consegnava un premio, un anello, se non proprio d’oro, d’argento. Sicuramente influenzato da quell’Olimpiade, lo si sarebbe visto parteciparvi per cinque volte al volante di un bob, dal 1988 al 2002.
Ma non di sole medaglie d’oro furono fatte quelle Olimpiadi di un’Italia nel pieno avvio del “Miracolo Economico”. Un’Italia che, da un paese di contadini, si stava trasformando in un altro, di operai specializzati.
Due altri ricordi
non si sono cancellati. Le duecentocinquantamila persone che seguirono il funerale di Mario Riva, a modo suo una medaglia d’oro del mondo dello spettacolo. E insieme l’abbraccio tra la moglie vedova e l’amante, altra sorprendente vicenda che precorse i tempi.
Infine, per parlare del diletto tennis che ancora non era stato riammesso (sarebbe avvenuto a Seul), la decisione del mio amico Nicola Pietrangeli, allora al sommo delle possibilità, di negarsi ad un contratto già firmato per passare professionista. In quei tempi, i tennisti erano ancora ufficialmente dilettanti, e la chance di ottenere 60.000 dollari dall’impresario e ex-campione Jack Kramer pareva una vincita al Totocalcio. Nel corso dell’inaugurazione olimpica Nic vide salire al cielo il tricolore, si commosse e stracciò il contratto.
Un’altra Italia, quella del 1960.