Guido Crainz, la Repubblica 21/6/2012, 21 giugno 2012
Quando Franklin Delano Roosevelt viene eletto Presidente degli Stati Uniti, nel novembre del 1932 – e ancor più quando si insedia alla Casa Bianca, nel marzo successivo – gli effetti devastanti della “grande crisi” del 1929 sono giunti all’estremo
Quando Franklin Delano Roosevelt viene eletto Presidente degli Stati Uniti, nel novembre del 1932 – e ancor più quando si insedia alla Casa Bianca, nel marzo successivo – gli effetti devastanti della “grande crisi” del 1929 sono giunti all’estremo. In America, con il crollo della produzione e degli investimenti e la polverizzazione dei titoli azionari, con migliaia di fallimenti bancari e con tredici milioni di disoccupati (effetto anche delle scelte – tradizionali e del tutto inadeguate – del presidente uscente Edgar Hoover). E in Europa, dove lo scenario è reso ancora più cupo dall’ascesa del nazismo in Germania. Roosevelt diventa dunque presidente in condizioni catastrofiche: «se c’è qualcosa da temere è la paura stessa », dice subito al Paese. E dà il segnale di una drastica inversione di tendenza con i primi “cento giorni”: così densi di provvedimenti, scrisse André Maurois, da «richiamare la narrazione biblica della creazione». Vi erano sullo sfondo le teorie economiche di John Maynard Keynes: «se Lei fallisse – scriveva a Roosevelt l’economista inglese – la scelta ragionevole risulterà gravemente pregiudicata in tutto il mondo». La “scelta ragionevole” aveva al centro una qualità nuova dell’intervento dello stato in economia e l’uso della spesa pubblica in funzione “anticiclica”: volto cioè a superare il ciclo economico sfavorevole rilanciando la domanda interna e il reciproco sostenersi di salari, consumi e profitti. Aveva al centro al tempo stesso l’avvio del welfare state, con l’introduzione della previdenza sociale. E con l’idea-forza che lo Stato non debba lasciare solo nessuno di fronte ai drammi del vivere. Di qui alcuni momenti centrali del New Deal rooseveltiano: l’assunzione nei corpi forestali di mezzo milione di giovani poveri; un intervento straordinario nella Valle del Tennessee che univa sistemazione idraulica dei terreni, sfruttamento delle risorse idroelettriche e sostegno agli agricoltori; il National Industry Recovery Act, che difendeva salari e libertà sindacali, e così via. Assieme a interventi sulle banche e sulla Borsa, misure fiscali progressive, garanzie ai piccoli risparmiatori e ai proprietari di casa minacciati dal pignoramento. Assieme alla scelta di far leva su un elemento decisivo: «con il miracoloso sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa – scriveva l’American Institute for Public Opinion fondato allora da George Gallup – per la prima volta nella storia ci dobbiamo confrontare con l’opinione pubblica come elemento determinante». La capacità di far leva su di essa per far rinascere la speranza fu uno dei punti di forza del New Deal, grazie anche alla scelta di Roosevelt di rivolgersi direttamente agli americani riducendo drasticamente la distanza fra la politica e il Paese: con quei toni e con quella capacità di dare risposte alle inquietudini che rendevano così efficaci i suoi colloqui radiofonici con la nazione, i “discorsi al caminetto”. E con il sostegno della parte più vitale della cultura americana, dal cinema alla letteratura. Così Roosevelt superò l’opposizione conservatrice dei potentati economici e della Corte Suprema, che annullò alcuni provvedimenti importanti, ed ottenne conferme elettorali eloquenti: e oggi giudichiamo il New Deal non solo per i suoi risultati nel breve periodo (decisivi, anche se non “miracolosi”) o per la sua proiezione nel futuro (che avrebbe cambiato sia l’economia che la politica) ma anche per la sua capacità di risollevare e trasformare un Paese restituendogli la fiducia in se stesso.