Cesare Segre, Corriere della Sera 20/06/2012, 20 giugno 2012
LA SICILIA CHE SOGNAVA CONSOLO
Sono cinque mesi che Vincenzo Consolo ci ha lasciati, e il dolore incomincia a sfumarsi di rimpianto. Al dolore della perdita si mescola ora la consapevolezza, anche, dei mutamenti che questa perdita ha implicato per il quadro attuale della narrativa italiana. Si sa che Consolo era tra le figure di maggiore spicco del romanzo di fine Novecento, ma si vorrebbe precisare in che misura, e per quali aspetti in particolare.
Ci aiuta ora il volume La mia isola è Las Vegas (Mondadori, pagine 252, 19), costituito da suoi racconti pubblicati fra il 1957 e il 2011. All’inizio e alla fine s’incontrano alcuni inediti. In complesso i racconti sono più di cinquanta, solitamente brevi, ma con qualche eccezione, sino a una decina di pagine. Per il resto possiamo dire che i testi provengono da quotidiani (più spesso, nell’ordine, «La Stampa», «Il Messaggero», «Corriere della Sera», «l’Unità», «La Sicilia», «Il Manifesto»), riviste e pubblicazioni varie, anche d’occasione. Una nota finale del curatore, Nicolò Messina, dà le notizie necessarie su eventuali cambi di titolo dei pezzi, ristampe successive, ritocchi d’autore.
L’ordine cronologico con cui si susseguono i racconti, preferibile a un qualsiasi ordinamento tematico, fa iniziare il volume con lo stupendo «Un sacco di magnolie». E così ci propone subito alcune linee di storicizzazione. La prima è quella autobiografica, perché diversi flash sparsi qua e là nei testi ci fanno ripercorrere le fasi principali della vita di Consolo, dall’infanzia siciliana agli studi universitari, in giurisprudenza, a Milano. Poi, i primi incontri con scrittori, tra cui quelli cui fu più vicino (Sciascia, ma anche Lucio Piccolo), l’attività alla Rai, e le prime prese di posizione politiche, frutto di una riflessione sulle vicende recenti della Sicilia e sulla situazione complessiva dell’Italia. Lo schema del viaggio, dalla Sicilia a Milano e viceversa, come in Vittorini, è una falsariga comune a molti racconti. E si constata subito che, quando il paesaggio o la vita paesana concentrano l’attenzione dello scrittore, con efficaci risultati artistici, è perché ci si trova in Sicilia.
Altra linea storica è quella dello stile, perché i racconti rivelano le sperimentazioni che portarono Consolo dall’oggettività de La ferita dell’aprile a una forma di espressionismo barocco, nel Sorriso dell’ignoto marinaio e nei romanzi successivi; da un’intensa concisione quasi neorealista a una ritmicità coinvolgente. Si tratta di un’esperienza con forti implicazioni personali, perché Consolo si è sempre mosso tra un impegno immediato nel giudizio storico o nella denuncia (come si riscontra in quasi tutte le sue raccolte di saggi), e uno scavo dal presente al passato, dal «qui ed ora» alla visione sul tempo e sui secoli. Tanto che il suo «barocco» diventa un procedimento per evocare momenti significativi di vita della sua isola. Insomma, la varietà degli stili riflette il gioco e l’alternanza dei punti di vista.
Di qui la grande varietà tematica, da ricordi e fantasie ad abbozzi di storia (per situazioni siciliane, specie di carattere sociale, ma anche milanesi), da incontri a racconti di viaggio, dal tragico al comico, frequentato abbastanza spesso in questo volume. Ci sono vere pagine di storia, come «E poi arrivò Bixio, l’angelo della morte», sul noto eccidio di Bronte, mentre il profumo di un aranceto può dare l’avvio a una breve storia della Sicilia araba («Arancio, sogno e nostalgia»). Un po’ spaesato appare solo «Madre Coraggio», di ambiente israeliano-palestinese. Tra i testi che possono sorprendere il lettore c’è persino un racconto (scritto per «il Travaso») su Strehler e sul Piccolo teatro, in italo-milanese, o un morboso-boccaccesco «Miracolo», che richiama alla lontana la scena di frate Nunzio invasato nel Sorriso dell’ignoto marinaio. Si può segnalare infine un racconto su un Mussolini trasposto ai nostri giorni; il racconto fa il verso a Gadda, uno dei principali modelli di Consolo: per esempio il duce è deformato in «il kuce». Vien da domandarsi, con lo scrittore, «non è il narrare quell’incontro miracoloso, di ragione e passione, di logica e di magico, di prosa e poesia?».
Cesare Segre