Fabrizio Massaro, Corriere della Sera 20/6/2012, 20 giugno 2012
«L’Italia soffre di una crisi di fiducia ma ha la ricchezza per saldare i propri debiti». Il giudizio di Jamie Dimon, amministratore delegato di JPMorgan, pronunciato ieri davanti al Congresso americano mentre si difendeva per i 2 miliardi di dollari di perdite improvvise sui derivati, suona come una svolta nelle opinioni del mercato
«L’Italia soffre di una crisi di fiducia ma ha la ricchezza per saldare i propri debiti». Il giudizio di Jamie Dimon, amministratore delegato di JPMorgan, pronunciato ieri davanti al Congresso americano mentre si difendeva per i 2 miliardi di dollari di perdite improvvise sui derivati, suona come una svolta nelle opinioni del mercato. Perché è una lettura che arriva dopo una mole enorme di analisi, rapporti e giudizi sull’Italia, sull’Europa, sulla tenuta della moneta unica, che hanno scatenato le preoccupazioni sullo stato di salute dell’economia del Paese e del vecchio continente, a cominciare dalla tenuta del suo sistema bancario. Punendo pesantemente i titoli degli istituti bancari. Sull’Italia ha cominciato Moody’s con il declassamento di massa di 26 istituti, facendo gridare l’Abi, l’associazione delle banche, all’«aggressione all’Italia. Per abbassare il rating si tirano addirittura in ballo le misure di austerità del Governo Monti che una volta le stesse agenzie invocavano allorché disegnavano l’outlook negativo delle imprese bancarie». La scorsa settimana il colosso americano Citi ha sostenuto che se la spirale spread-recessione si aggraverà per i più alti tassi sui titoli di Stato, l’Italia sarà alla fine costretta anch’essa a chiedere aiuto alla Bce, al fondo salva Stati europeo e perfino al Fondo monetario. Pochi giorni dopo, un’altra banca americana, Morgan Stanley, ha evidenziato che, pur non versando in una situazione come quella spagnola (con le banche bisognose di almeno 100 miliardi per i buchi derivati dalla bolla dell’immobiliare), per coprire i crediti in sofferenza le banche italiane potrebbero avere necessità di aumentare il loro capitale fino a 12-21 miliardi di euro. Si vedrà oggi se l’iniezione di fiducia di Dimon — che comunque si dichiara «preoccupato per l’Europa» — avrà effetti sui mercati, già rimbalzati ieri a Piazza Affari. Si vedrà se avrà più forza una frase del mega banchiere o le ponderose analisi negative pubblicate in questi giorni. Che pure hanno messo in evidenza, con numeri e statistiche, difficoltà effettive e conosciute del sistema bancario italiano. Non va trascurato che gli studi delle banche d’affari e delle case d’investimento, pur fondandosi su criteri e metodi d’analisi codificati e redatti da gruppi di analisti che agiscono in rigida separazione dalla parte operativa della banca (le famose «muraglie cinesi»), rispecchiano comunque il sentimento del mercato e soprattutto servono ad orientare i clienti nelle loro scelte di investimento. Insomma, quei report che ogni mattina arrivano nelle email degli operatori spostano miliardi su un titolo o un altro, condizionano gli investitori a puntare su un bond spagnolo o su un Btp italiano o a dirottarsi verso i titoli di Stato americani, l’altro porto sicuro del risparmio insieme ai Bund della cancelliera Angela Merkel. Nasce anche da qui la varietà di letture basate sugli stessi numeri. Così a fronte di Moody’s che colpisce le banche italiane a causa della recessione, c’è il direttore generale di Fitch, Ed Parker, che lo stesso giorno del report pessimista di Citi dichiara di ritenere «improbabile che l’Italia avrà bisogno di un salvataggio, perché è in una situazione migliore rispetto alla Spagna», evidenziando alcuni punti di forza: «L’Italia ha un deficit di bilancio molto basso, come così pure un deficit delle partite correnti e non ha problemi di banche». Senza considerare che un’analisi alternativa la si trova sempre: l’8 giugno il Financial Times ha scritto che alle 19 maggiori banche americane mancherebbero almeno 50 miliardi di dollari di capitale per adeguarsi alle nuove regole sul patrimonio, dette di «Basilea 3» che le banche in Ue hanno faticosamente cominciato a rispettare. Una lettura differente l’ha data ieri anche R&S di Mediobanca: in Europa le banche hanno avuto ricavi più o meno costanti (-1,1%) ma hanno visto l’utile crollare quasi del 73%; in America i ricavi sono caduti dell’8,8% ma gli utili sono cresciuti del 22%: questo perché le pulizie nei bilanci gli americani le hanno fatte in parte prima, grazie anche agli aiuti dello Stato. In Europa le svalutazioni sono avvenute in gran parte l’anno scorso, come hanno fatto Unicredit e Intesa Sanpaolo. Meglio gli Usa allora? Dipende: Oltreoceano gli attivi cosiddetti «intangibili» (come tali più esposti ai giudizi di valore) pesano per un terzo dei mezzi propri; in Europa solo per un quinto. Al mercato il giudizio su chi sia più solido. Al contrario, per Mediobanca il problema dei «crediti dubbi» è meno pressante negli Usa che in Europa. Anche qui però, contano le lenti che si usano: a seconda dei diversi criteri di copertura le banche italiane potrebbero necessitare da 5,7 a 48 miliardi di accantonamenti oppure (secondo la «moda» tedesca, scrive Mediobanca) liberare risorse per 11,2 miliardi. Allora forse è il caso di assumere un altro punto di vista ancora: «Al di là dei problemi patrimoniali legati ai rischi immobiliari e di liquidità, per le banche europee c’è un problema colossale di redditività», spiega Claudio Scardovi, managing director di AlixPartners, che sta per pubblicare un report sugli istituti europei in cui parla anche di «banche zombie»: «Se guadagni solo il 2% l’anno non puoi fare altro che ristrutturarti. Come è avvenuto negli anni 80 con il settore siderurgico. Competere con gli americani che si finanziano al 2% grazie ai titoli del Tesoro bassi è impossibile». Fabrizio Massaro