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 2012  giugno 19 Martedì calendario

FRONTIERA CON LA JUGOSLAVIA LA GAFFE DI WOODROW WILSON

Com’è noto, al termine del primo conflitto mondiale l’Italia si presentò al tavolo della pace esibendo gli accordi segreti stipulati con gli alleati prima di entrare in guerra: il nostro Paese avrebbe ottenuto, in caso di vittoria, l’Istria, la Dalmazia, il Dodecaneso e altro. La nostra richiesta incontrò l’opposizione del presidente Wilson che era all’oscuro di tali accordi in quanto gli Stati Uniti erano entrati in guerra due anni dopo. Di fronte alla forte reazione italiana il presidente chiese a una commissione di studiosi di individuare, nei territori da noi rivendicati, le zone a prevalente presenza italiana, sia demografica sia economica, da assegnare al nostro Paese e quelle a prevalente presenza slava da assegnare alla Jugoslavia. Venne disegnata sulle carte geografiche la «linea Wilson» che purtroppo l’Italia non accettò. Ho scritto purtroppo perché quando questa soluzione fu avanzata dai nostri rappresentanti al tavolo della pace del 1947, la risposta delle potenze che avevano vinto il secondo conflitto mondiale fu un netto «troppo tardi». Le cose andarono effettivamente così?
Mario Moscatelli
mario.moscatelli@tin.it
Caro Moscatelli, qualche parola, anzitutto, sulla «linea Wilson». In un libro scritto nel 1938 e sinora inedito (Il problema italiano alla conclusione della pace dopo la Prima guerra mondiale) un diplomatico, Mario Luciolli, ha descritto bene il clima dei rapporti fra il presidente del Consiglio italiano Vittorio Emanuele Orlando e il presidente degli Stati Uniti nei primi mesi del 1919. Woodrow Wilson aveva riconosciuto all’Italia il Trentino e il Tirolo meridionale sino al Brennero, ma aveva scoperto tardi, con una certa sorpresa, che nella provincia di Bolzano vivevano 245.000 persone di lingua tedesca. «Volete dire che sono protedeschi, proaustriaci?», aveva chiesto a un diplomatico inglese, Harold Nicolson, alla fine di una riunione angloamericana. E Nicolson gli aveva risposto: «Ebbene, direi protirolesi, soprattutto a Bolzano».
Fu questa probabilmente la principale ragione per cui decise di richiamarsi fermamente, nel caso dell’Istria e di Fiume, al nono dei suoi quattordici punti: «Le modifiche della frontiera italiana dovranno essere decise sulla base di criteri nazionali, chiaramente riconoscibili». Affidò lo studio della questione a un gruppo di esperti e presentò, nell’aprile del 1919, una carta geografica in cui il confine correva da nord a sud attraverso l’Istria orientale lasciando al nuovo Stato jugoslavo Sorica, Idria, Postumia, San Pietro del Carso, Ternavo, Villa del Nevoso, Castelnuovo, Bergut e, naturalmente, Fiume. Accettò più tardi che a Fiume venisse conferito uno statuto speciale, sotto l’egida della Società delle Nazioni, ma avanzò la sua proposto nel peggiore dei modi possibili. Anziché presentarla nel corso di una riunione, s’indirizzò direttamente all’opinione pubblica italiana con un messaggio in cui si diceva, tra l’altro: «Solo su questi principi» l’America «spera e confida che il popolo italiano le chiederà di fare la pace». Vittorio Emanuele Orlando decise allora di abbandonare la conferenza e di tornare in Italia. Commise un errore, probabilmente. Non capì che un uomo di Stato può permettersi di uscire dalla sala delle trattative soltanto se è certo che la sua assenza costringerà gli altri a interrompere i lavori. Ma il suo risentimento era giustificato. Con la sua pubblica dichiarazione Wilson aveva dimostrato che il principio della «open diplomacy» (la diplomazia alla luce del sole), enunciato nel primo dei quattordici punti, poteva fare, se male impiegato, molti guasti.
Come lei ricorda, caro Moscatelli, la «linea Wilson» uscì dagli archivi alla conferenza di Londra del settembre 1945, quando il ministro degli Esteri italiano e il rappresentante della Jugoslavia — Alcide De Gasperi e Edvard Kardelj — furono chiamati a esporre la posizione dei loro Paesi sul problema della frontiera. De Gasperi, in quella occasione, propose la linea Wilson. Troppo tardi.
Sergio Romano