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 2012  giugno 19 Martedì calendario

NON C’E’ TEMPO PER PIANGERE (NEANCHE I MORTI) - È

morto improvvisamente uno dei miei più cari amici. La notizia che mi è arrivata con una telefonata, sul cellulare, mentre ero in treno, mi è sembrata così stranamente naturale da non procurarmi nessuna emozione; eppure non mi aveva lasciato indifferente. Con l’amico scomparso avevo passato una parte della mia vita, eravamo stati giovani insieme, condiviso molte idee, molti entusiasmi, una parte di me se n’era andata con lui. Ma perché non ero scoppiato in pianto? Perché neppure un tremito, neppure una lacrima, quando avevo appreso la notizia? Avevo pensato: presto anch’io morirò e chi mi ha amato apprenderà la notizia della mia morte con la stessa naturalezza. Questo in qualche modo mi assolveva, mi metteva in pace con la coscienza. Eravamo pari. Ma io ero scontento di me stesso e di questa mia reazione, sentivo urgere domande, dovevo analizzare meglio il mio stato d’animo, sentivo che dovevo «giustificarmi».
Questa è un’epoca, pensavo, in cui la morte, avendo perso come tanti altri eventi, la sua sacralità, non fa più tanta impressione. Si vede morire e si parla di morte ogni giorno, in diretta televisiva, in un documentario, in una fotografia, in un titolo di giornale. La morte è diventata un fatto ordinario e quotidiano, cui si assiste sbadatamente. È una notizia che arriva insieme a un fiume di altre notizie, trascinata dall’impetuosa e impietosa corrente dell’informazione, allo stesso modo di tante altre, e con quelle si confonde. Ha la stessa fugacità e la stessa rilevanza di quelle notizie che scorrono sul nastrino rosso sotto le immagini televisive, che si fa appena in tempo a leggere, data la velocità con cui vengono trasmesse. Questo provoca anche una fragilità della memoria che non fa in tempo a trattenere una notizia e già deve passare alla successiva. Così accade che la memoria ritenga in modo passeggero l’emozione che la notizia di una morte, sia pure quella di un caro amico, dovrebbe suscitare. Ci abbiamo fatto l’abitudine alle cattive notizie, si potrebbe dire, ti arrivano inopportune nel caos del daffare quotidiano, mentre stai in treno o stai per salire su un taxi e insieme a tante altre incombenze. Eppure bisognerebbe farle posto, concentrarsi, dedicarvi un minuto di silenzio nella confusione, e una furtiva lacrima, almeno questo. Invece niente. Se tutto è anonimo e fuggevole, vivere un’emozione e piangere per un amico diventerà un privilegio che raramente ci sarà consentito e solo in circostanze speciali. Questa difficoltà di vera partecipazione emotiva ci priverà della tragica nobiltà di chi è colpito dalla sventura e dall’ira degli dei e ci priverà anche di quel sollievo che dà il pianto. Si dice infatti «pianto liberatorio». Nessuno ci libererà più dalla nostra neutralità, dalla nostra «aurea mediocritas» sentimentale.
Una volta, nei tempi eroici, quando «eroici» erano anche i sentimenti, gli eroi piangevano. Una volta, nei tempi eroici, piangevano anche i cavalli. Piangevano i cavalli, racconta Omero nell’Iliade, vedendo il giovane Patroclo, l’amico di Achille, cadere in battaglia per mano del prode Ettore. Piangevano i cavalli «divini», donati dal dio, colpiti anch’essi dall’umano dolore perché, dice Omero, «davvero niente è più infelice dell’uomo»: «Piangevano quando videro il loro auriga / cadere nella polvere per mano di Ettore/ ... e restavano fermi / davanti al bellissimo carro, inclinando / a terra la testa, e lacrime calde cadevano/ giù dalle palpebre, e scorrevano a terra / per nostalgia del loro auriga...». Quel pianto attraversa i secoli e ritorna nei versi di Kavafis: «Ma le bestie di nobile natura / piangevano di morte la perenne sventura».
Raffaele La Capria