Massimo Gaggi, Corriere della Sera 19/06/2012, 19 giugno 2012
«MA PERCHE’ NOI DOBBIAMO PAGARE IL VOSTRO CONTO?» —
«Non so esprimermi in un inglese raffinato come il vostro, ma credo che riusciate a capirmi quando dico che i Paesi emergenti, che ancora sono molto poveri, soffrono più degli altri per la crisi economica: la risoluzione del G20 deve rispecchiare questa realtà», non solo le preoccupazioni per il salvataggio dell’euro. La giovane «sherpa» del governo argentino parla nella sala imbandierata dove i rappresentanti dei governi del «direttorio del mondo» (venti Paesi che rappresentano i due terzi della popolazione e quasi il 90 per cento del Pil planetario) emendano la bozza del comunicato finale del vertice. Il testo scorre su grandi schermi appesi alle pareti. Le frasi-chiave appaiono scritte in rosso, i termini sui quali ci si accapiglia, soprattutto il significato da dare alla parola «crescita», vengono evidenziati con uno sfondo azzurro.
È un impegno estenuante: un numero infinito di ore di lavoro a porte chiuse. O quasi, visto che un servizio di sicurezza messicano alquanto tollerante lascia filtrare qualche giornalista. L’Argentina non ha molto peso nel G20, né il suo governo è tra i più credibili. Ma questo appello accorato, che lascia freddi i governi occidentali, si guadagna subito l’appoggio convinto del rappresentante del governo cinese, mentre anche lo «sherpa» indiano, barba e turbante, si schiera al suo fianco.
È solo un «flash» di un G20, quello iniziato ieri a Los Cabos, sulle coste messicane bagnate dal Pacifico, che si sta rivelando un vero calvario: per i leader europei, messi sotto accusa dal resto del mondo che li considera responsabili del nuovo aggravamento della crisi economica internazionale; per la Germania assediata da tutti gli altri che le chiedono di farsi carico dei problemi dell’euro; per Barack Obama che sollecita, suggerisce, incalza, ma qui tocca con mano le conseguenze dell’indebolimento della leadership Usa. E anche per gli stessi emergenti, dalla Cina al Brasile all’India: alzano la voce nei confronti dell’Europa perché sono spaventati.
Fino all’anno scorso guardavano alle difficoltà economiche nelle quali l’Occidente di dibatte dal crollo della Lehman, nel 2008, con un certo distacco, visto che le loro economie continuavano a crescere tumultuosamente. Negli ultimi mesi tutto è cambiato: la crescita per alcuni di loro c’è ancora, ma sta diventando anemica, per altri sta sparendo. Così questi governi, dopo gli anni del miglioramento delle condizioni di vita di popoli che si stanno sollevando dalla povertà, temono ora di trovarsi all’improvviso a gestire situazioni sociali difficili.
Alcuni Paesi sembrano soprattutto implorare, come l’Indonesia e il Messico, che hanno ancora il fresco ricordo della disastrosa crisi del 1990 e chiedono ai Grandi di aiutarli a non ricadere in quell’incubo. Altri reagiscono alzando la voce e spingono uno stizzito Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, a replicare con altrettanta durezza: «Non siamo venuti qui a prendere lezioni di democrazia». Ma intanto i Brics (la «lega» degli emergenti, dalla Cina all’India) non hanno ancora definito il loro contributo ai 430 miliardi di dollari del «firewall» a protezione dell’euro che il Fondo monetario si era impegnato ad erigere già nel vertice di due mesi fa. Accanita soprattutto la resistenza del Brasile. La questione forse si sbloccherà oggi, ma è diventata un altro incidente significativo.
Le parole di Barroso materializzano i timori di chi pensa che vertici come questo, benché assai più rappresentativi delle nuove realtà mondiali del G8, non siano in grado di concludere accordi concreti, che vadano oltre i documenti generici, proprio per le enormi differenze — economiche ma anche di interessi e di sistemi politici — degli attori in campo.
D’altra parte i problemi sono acuti anche all’interno dell’Occidente, area che, pure, è abituata a parlare una lingua politica ed economica comune. Obama, ostenta toni collaborativi, ma è anche spazientito da una crisi europea che pesa negativamente sulle sue prospettive di rielezione. Alla fine di un vertice col presidente messicano Felipe Calderon, esprime soddisfazione per l’esito del voto in Grecia, si dice incoraggiato. Ma, anche se è stato evitato il «Dracmageddon», i mercati restano scettici e impauriti. Il presidente Usa chiede così all’Europa misure adeguate per restituire credibilità alla sua valuta senza lasciare spazio alle nuove tentazioni protezioniste che si diffondono nel mondo. Obama incalza la Merkel in ben due incontri: prima in un faccia a faccia dopo il pranzo del G20, poi in un vertice a tarda sera con i leader europei presenti a Los Cabos, da Monti a Hollande.
Il premier italiano, impegnato anche lui a ricucire e mediare, continua a esercitare le sue pressioni discrete sulla Merkel, ma ricorda anche a Obama che questa crisi che oggi ha il suo epicentro in Europa, «è nata da squilibri macroeconomici in altri Paesi, con gli Stati Uniti protagonisti».
«È un percorso accidentato che speriamo abbia un lieto fine col Consiglio europeo dei prossimi giorni, che la Germania alla fine prenda atto di quello che tutti le chiedono anche qui a Los Cabos» commenta pensoso il viceministro dell’Economia Vittorio Grilli, sul balcone affacciato sull’oceano dell’Hacienda del Mar, l’albergo che ospita Monti. «Oramai le cose da fare sul debito e sulla crescita sono chiare, è l’ora degli impegni. La pressione, soprattutto del mondo anglosassone, quello che ha più peso sui mercati, è fortissima. E le difficoltà di Paesi che fino a ieri sembravamo tranquilli, come l’India, aggiungono pressione. Se anche loro si fermano da dove riparte la crescita?» Il comunicato finale la invoca a gran voce, ma senza entrare nel dettaglio, perché Berlino è contraria a politiche fiscali espansive. «La Germania ci ha promesso che aumenterà i salari» per sostenere la domanda, aggiunge Grilli. «Non so se lo stia già facendo».
Massimo Gaggi