ROBERTO GIOVANNINI, La Stampa 19/6/2012, 19 giugno 2012
Ai piedi della diga che divora la foresta “Addio Amazzonia” - Vi ricordate Avatar, il film? In un pianeta incontaminato arrivavano i terrestri alla ricerca di minerali preziosi
Ai piedi della diga che divora la foresta “Addio Amazzonia” - Vi ricordate Avatar, il film? In un pianeta incontaminato arrivavano i terrestri alla ricerca di minerali preziosi. Disgraziatamente, la cittàalbero dove vivevano gli autoctoni risultava essere proprio sopra un gran giacimento. Risultato, visto che non se ne andavano con le buone, li facevano andare via con le cattive. Bombe e razzi erano l’avanguardia delle ruspe e dei bulldozer, simbolo della civilizzazione e del progresso. Con le dovute differenze - non erano degli alieni Na’vi, ma poveri pescatori e contadini - è più o meno quello che è capitato nel 1985 a qualche migliaio di brasiliani nel 1985, quando venne conclusa la gigantesca diga di Tucuruì, sul fiume Tocantins, nello Stato del Parà. Il grandissimo invaso artificiale -3000 chilometri quadrati - necessario per alimentare le 12 turbine che producono 8500 MW di energia elettrica, ha ricoperto case e villaggi e aree di foresta amazzonica vergine. A valle, lungo il fiume, la costruzione dell’immensa diga, alta 78 metri e lunga complessivamente 12 chilometri e mezzo, ha mutato il ciclo delle acque. Parte delle famiglie scacciate ricevettero pochi spiccioli in cambio dei loro beni perduti; per venti anni migliaia di persone dovettero vivere in baracche coperte di plastica prima di migrare altrove. E dal 1985 al 2000 – ci sono volute prima durissime lotte sociali, poi la vittoria di Lula e del suo programma Luz para todos, elettricità per tutti - neanche una delle comunità ribeirinhe poteva godere della corrente elettrica prodotta a Tucuruì. Serviva tutta per le fabbriche di alluminio delle multinazionali nella città di Barcarena, vicino Belem. Erano altri tempi: il progetto, affidato alla società pubblica Eletronorte (soprannominata qui «Eletromorte») fu ideato nel 1973, quando il Brasile era governato da una dittatura militare. Tutti gli studiosi confermano che qui a Tucuruì il gigante di cemento è stato paracadutato dal nulla nel mezzo della foresta amazzonica senza neanche provare a considerarne il (drammatico, si è visto) impatto ambientale e sociale. Le prime vittime sono stati gli scacciati, finiti in miserabili borgate ghetto, Breu Branco e Novo Repartimento: dietro le poche abitazioni decenti sulla via principale, sono disseminate tristissime casupole diroccate. Neanche i morti si sono salvati: il cimitero della cittadina di Itapiranga è stato scavato e spostato più in alto, sopra uno sperone roccioso. «Ma ora - ride amaramente Rosivaldo, un abitante del paesello - hanno scoperto che per rendere il fiume navigabile bisogna far saltare questa roccia con tutto il cimitero. E i nostri parenti devono morire per la terza volta!». Vittime sono stati anche tutti i costruttori del gigante di cemento. A un certo punto il cantiere occupava 32.000 manovali: in una baraccopoli a quattro chilometri dalla città, ci racconta un autista che si fa chiamare «Negrao», «il Negro», il 4 di ogni mese, il giorno di paga, si radunavano duemila prostitute pronte a saccheggiare i loro salari. Adesso Tucuruì è una città di 100mila abitanti, ma i costruttori della diga sono andati via, in cerca di nuovo lavoro e nuovi tratti di foresta da abbattere senza scrupoli. Vittima è anche la foresta e la vita che la popolava: intorno alla città e lungo le strade (piste a malapena percorribili) scavate nella terra rossa non ci sono praticamente più tracce di alberi. Restano in piedi come simbolo tragico, qui e là, i tronchi anneriti degli altissimi castanheiros, il noce del Brasile: li hanno uccisi con le fiamme per far presto. Ettari di foresta sono stati sommersi dal lago artificiale, tonnellate di legno e piante marcite che hanno inquinato il fiume. Vittima della diga è stato anche il grande fiume Tocantins. Il regime naturale delle acque ormai è gestito dalle esigenze di Eletronorte, che apre e chiude il flusso a seconda delle esigenze produttive delle 12 turbine e non delle stagioni. «E così sono scomparse quindici specie - ci racconta Bojolo, un pescatore di 59 anni della cittadina di Itacuarà, a valle della diga - una volta si pescava tantissimo, adesso puoi stare tutta una giornata per prendere 10 chili soltanto. E poi anche l’acqua che beviamo, quella del fiume, non è più sana come prima». Tucuruì è stato un disastro. Ma adesso il timore è che lo stesso disastro si ripeta ad Altamira, lungo il corso - ancora vergine e intatto, nel cuore della foresta - del fiume Xingu. Qui il governo della presidente Dilma Rousseff ha deciso di costruire un’altra gigantesca diga, quella di Belo Monte. Con i suoi 11.300 MW sarebbe il terzo complesso idroelettrico del mondo per potenza generata. Per il successore di Lula si tratta di un progetto «essenziale per produrre energia pulita e garantire l’autonomia e lo sviluppo del Brasile». Non la pensano così gli indiani Xingu che vivono nell’area minacciata dalle acque e dal progresso, e che si dicono «pronti a morire» (così ha detto il loro capo Raonì Metuktirè) pur di impedire il megaprogetto da 18 miliardi di dollari. Il governo assicura che stavolta la diga si farà «includendo» le esigenze delle popolazioni. Ma gli Xingu rischiano di fare la fine degli alieni Na’vi del pianeta Pandora e della gente del Tocantins. Sviluppo sostenibile, spesso, è soltanto una parola dal suono gradevole, che non è necessario far diventare realtà.