Adriano Bonafede; Massimiliano Di Pace, Affari & Finanza 18/6/2012, 18 giugno 2012
BERLINO CONTA I DIVIDENDI DELL’EURO 1300 MILIARDI DI SURPLUS IN DIECI ANNI
Roma - Asso pigliatutto. Da quando l’euro esiste fisicamente, ovvero dal primo gennaio 2002, la Germania ha sbaragliato con la sua competitività tutti i principali partner europei. Anno dopo anno le sue merci hanno invaso l’Ue, e in particolare i paesi dell’Eurozona, a cominciare dai più grandi, ovvero Francia, Spagna e Italia, ma senza trascurare i paesi periferici, come la ’povera’ Grecia. Mentre quasi nessuno ha saputo, con il suo export, controbilanciare il furore produttivo teutonico. Lo dimostrano i numeri: dal 2002 al 2011, la Germania ha accumulato un saldo commerciale positivo con gli altri 26 paesi della Ue di ben 1.302 miliardi, come risulta dai dati comunicati a Repubblica dal Statistisches Bundesamt - Destatis, l’Istat tedesco. Il risultato è incredibile, tenuto conto che costituisce un importo quasi doppio rispetto a quello impegnato da tutta l’Ue con il cosiddetto fondo salvastati, Efsf (European Financial Stability Facility), che può contare su una dotazione di 780 miliardi di euro, dei quali 211 garantiti dalla Germania, ma di fatto su una capacità di fare prestiti per ora limitata a 440 miliardi. Non solo. L’avanzo commerciale tedesco ottenuto a spese degli altri 26
paesi dell’Ue in appena un decennio vale 22 volte il European Financial Stabilisation Mechanism (Efsm), l’altro strumento messo a punto dall’Ue, che consente alla Commissione europea di emettere titoli garantiti dal budget comunitario, per un massimo di 60 miliardi, così da ottenere le risorse per sostenere subito i paesi in difficoltà, come l’Irlanda (che ha ricevuto finora 30,4 miliardi, di cui 18,4 dal Efsm ed i rimanenti 12 miliardi dal Efsf), ed il Portogallo (29,7 miliardi, dei quali 20,1 dal Efsm e 9,7 miliardi dal Efsf). Di questi 1.300 miliardi di euro di avanzo commerciale tedesco, poco meno della metà, ossia 600 miliardi, provengono dai 3 principali paesi dell’Eurozona, ovvero Francia (263,3 miliardi di deficit commerciale accumulato con la Germania negli ultimi 10 anni), Spagna (178,2) e Italia (158,1), gli ultimi due, come noto, in gravi difficoltà economiche e di finanza pubblica. Anche la Grecia ha offerto il suo contributo alla ricchezza della Germania, visto che ha dato alla patria di Goethe tra il 2002 ed il 2011, grazie ad importazioni di merci tedesche di gran lunga superiori all’export ellenico, 45 miliardi di euro, ossia un terzo del piano di aiuti (130 miliardi di euro, di cui però 28 dal Fmi), previsto per tirar fuori la patria della democrazia dalle secche pericolose di una crisi economica senza precedenti, in cui, paradossalmente, un governo democratico (quello del centrodestra di Karamanlis) l’aveva fatta finire con una gestione della finanza pubblica quasi criminale. E’ il caso di rilevare che i soldi guadagnati dall’economia tedesca grazie all’avanzo commerciale con la Grecia (45 miliardi in 10 anni), sono di poco inferiori alle risorse finora messe in campo dall’Ue per aiutare Atene, pari a 52,9 miliardi di euro, ai quali vanno però sommati i 20,1 miliardi di provenienza Fmi. Da notare che il sistema produttivo tedesco, come un vero panzer, ha macinato nel campo dell’export risultati strepitosi nell’arco di un decennio, senza che vi sia mai stato un anno con un segno meno, salvo che con le più piccole Olanda, Irlanda, Slovacchia, paesi con i quali registra spesso dei deficit commerciali. Si tratta quindi di una superiorità strutturale nei confronti degli altri paesi comunitari, che consente di affermare in modo semplice e diretto, senza tema di essere smentiti, che a guadagnarci dal mercato unico e dall’euro c’è stato finora, in sostanza, un solo paese: la Germania. Le aziende tedesche hanno convinto i consumatori e le imprese dei paesi Ue ad acquistare in modo crescente le proprie merci, mentre non altrettanto sono riusciti a fare gli operatori economici degli altri paesi comunitari in Germania. In altre parole, come dimostra il caso dell’Italia, che pur registra avanzi commerciali sistematici con Francia e Spagna, i prodotti Made in Italy non sono riusciti a far breccia nel mercato tedesco in misura proporzionale al successo nel Bel Paese dei beni Made in Germany, come prova il costante deficit commerciale italiano nei confronti della Repubblica federale tedesca, che ogni anno si attesta intorno ai 15 miliardi di euro. L’Europa è, per la nazione della signora Merkel, una specie di Pozzo di San Patrizio, da cui trae buona parte della sua ricchezza odierna. Basti pensare che il 75,7 per cento del surplus commerciale del 2011, pari a 158 miliardi di euro, proviene dalla Ue. A questo vantaggio derivante dal mercato unico, si aggiunge quello che proviene dalla moneta unica. Non bisogna infatti dimenticare che l’introduzione della moneta unica non è stata solo il frutto di un innamoramento collettivo verso un nuovo traguardo del processo di integrazione europea, né una semplice logica conseguenza del mercato unico, bensì anche uno strumento di convenienza economica per il commercio intracomunitario. Il vantaggio economico derivante dalla moneta unica è presto quantificabile. Le aziende che esportavano verso gli altri paesi comunitari oggi parte dell’Eurozona, anche in assenza di dogane, affrontavano due tipi di costo, derivanti dalla presenza di valute diverse. Un primo costo consisteva nella commissione di cambio, che gli operatori economici, al pari delle persone che si recano all’estero per vacanza o affari, devono pagare alle banche per trasformare la valuta estera nella propria moneta. Questo costo è in genere non inferiore al 2-3% del valore della transazione. Vi è poi un ulteriore costo, che è dovuto alla copertura dei rischi di cambio, ossia al rischio che il tasso di cambio esistente al momento della sottoscrizione del contratto di vendita, risulti poi diverso da quello in vigore al momento del pagamento, possibilità esistente anche nel precedente sistema dello Sme (Sistema Monetario Europeo), in cui le oscillazioni previste potevano raggiungere la soglia massima del 4,5% (+/-2,25% rispetto all’Ecu). In sostanza, il rischio di cambio poteva costituire un costo pari a 2-3 punti percentuali del valore dell’esportazione. In altre parole, l’introduzione dell’euro ha consentito di risparmiare almeno il 5% sul valore degli scambi intracomunitari tra i paesi dell’Uem (Unione economica e monetaria). Nel caso della Germania, applicando quel 5% ai 3.645 miliardi di euro di prodotti venduti negli altri 16 paesi dell’Eurozona negli ultimi 10 anni, si ottiene il non trascurabile importo di 182 miliardi di euro, che costituisce poco meno di quanto la Germania ha dato (211 miliardi) al fondo salva stati (Efsf). In sostanza, la Germania si è impegnata (senza però spendere) per un importo di poco inferiore al risparmio effettivo già ottenuto dalle sue imprese grazie all’euro. Un vantaggio che si aggiunge a quello derivante dall’avanzo commerciale, dovuto all’esistenza di un mercato unico. Ora che l’Europa ha bisogno della Germania, ed in particolare del suo assenso verso i dibattuti Eurobond (o altri meccanismi simili), Berlino può riflettere sul fatto che vi sono buoni motivi per dimostrarsi riconoscente verso i propri partner europei, che hanno contribuito in maniera così determinante al suo benessere.