Gianfranco Marrone, la Repubblica 19/6/2012, 19 giugno 2012
IL NUOVO MARKETING NELL’ERA DI WIKIPEDIA
Lavita è quello che ti succede quanto sei occupato a fare altri progetti. Lo diceva John Lennon, secoli fa, ma calza a pennello per la condizione attuale nell’universo dei consumi, e dunque del famigerato brand e di quella sua costola armata che è il marketing. Mentre le testeduovo di aziende d’ogni ordine e grado si affannano a elaborare pianificazioni, raffinare strategie, individuare target e promuovere scintillanti beni e paradisiaci servizi, la vita accade altrove. L’innovazione, la moda, l’estetica, la politica che ancora sino a pochi anni fa i grandi brand multinazionali elaboravano e gestivano si sono spostati verso altri lidi: molto diversi, straordinariamente più dinamici. E così la disputa fra No Logo e Pro Logo, dopo averci entusiasmato e/o indignato nei primi vagiti del millennio, sembra essersi spenta o, appunto, tradotta in altra sede, in ambiti dove dominano ulteriori principi ideologici e differenti metodologie d’intervento.
Dove, esattamente? Facile rispondere: in rete. Che non è più però, come sappia-
mo, l’Internet cosiddetto 1.0, sorta di trasposizione delle vetrine cittadine nella virtualità nelle pagine web, dove la signorina alla cassa è stata sostituita da un link alla carta di credito. È semmai la rete 2.0 dei social network e delle comunicazioni istantanee, delle comunità virtuali e dei forum appassionati, del sapere condiviso e anonimo di Wikipedia e dell’accesso a tutti i costi all’informazione di WikiLeaks. Il web di chi ha qualcosa
da dire, vuol partecipare, farsi sentire. Quello dei Nativi Digitali. Così, in un mondo in cui la televisione ha perduto il suo ruolo di leader dei media e della società di massa che ne derivava, e in cui la pubblicità è sempre più tentativo propagandistico di prodotti globali, il brand ha dovuto venire a patti col proprio principale interlocutore: il consumatore. Il quale, a sua volta, è diventato avveduto: adesso richiede etica prima che estetica, sostenibilità prima che efficienza, buone pratiche prima che eccellenti performance. C’era una volta il brand (con tutte le sue declinazioni interne: dai sigilli di proprietà a segni di fiducia, dai logo globali ai
lovemark).
Adesso c’è il wikibrand: quello pensato, fatto e voluto da tutti, con adesione attiva, anonima, appassionata.
A disegnare questo quadro al tempo stesso euforico e preoccupante sono innanzitutto gli uomini di marketing, ben consapevoli che l’attuale rivoluzione tecnologica nel mondo dei media, tracimando in una parallela profonda trasformazione in quello sociale, non può non riguardare anche loro, il loro modo di lavorare, ovvero di far soldi, resistendo o assecondando i cambiamenti sempre più strutturali dei mercati finanziari e non. In
Wiki Brands
(prefazione di Don Tapscott, cura italiana di Marco
Lombardi, Franco Angeli), per esempio, due protagonisti della scena economica mondiale come Sean Moffitt e Mike Dover cercano di descrivere se e come è possibile reinventare il business nell’era della partecipazione. E partono dalla constatazione, tanto misera quanto indicativa, che negli ultimi tempi non c’è direttore marketing nel mondo che riesca a restare in sella alla propria azienda per più di due anni. E se fanno tutti una cattiva fine, le ragioni trascendono le capacità personali, riguardando appunto le fortissime trasformazioni nei mondi paralleli del consumo e della comunicazione. Per far affari, insomma, diviene necessario assecondare le necessità reali e simboliche di chi, prima d’essere cliente o consumatore, è persona a tutto tondo, con valori e affetti, ambizioni e credenze che trascendono il mondo del mercato o lo modificano fortemente. Così il brand non si pone più come qualcosa che si compra o come qualcuno di cui fidarsi. Diventa invece qualcosa a cui si partecipa, luogo di condivisione di esperienze e di interazione sociale. Appunto, wikibrand. Come Wikipedia è quel sapere diffuso e condiviso, senza autori, autorevolezze e autorità che farebbe inorridire Diderot e D’Alembert, analogamente il wikibrand è l’opposto del brand tradizionale: se mercato dev’essere, viene costruito dal basso, di modo che la merce, a sua insaputa, torna a essere prodotto, oggetto con un valore, segno con un significato. Ma fermiamoci un momento a riflettere: c’è il sospetto che qualcuno, come al solito, voglia fare il furbo del villaggetto globale. Chi indirizza e gestisce i wikibrand? Chi li brevetta e li fa circolare? Il solito consiglio di amministrazione? Il solito manager? Il solito stratega di mercato? Se è così, siamo certi che si tratta del tipico treno che passa e si perde. Sarebbe utile invece, innanzitutto al marketing stesso, che la condivisione fosse reale, la partecipazione affettiva. La sincerità e l’etica, una volta tanto, fanno vendere. Perché non approfittarne?