Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  giugno 19 Martedì calendario

IL RIFUGIO DELLA PANTERA

Il 30 ottobre 1969, Peter O’Neal, menbro delle Pantere Nere, fu arrestato per possesso non autorizzato di armi da fuoco. Riuscì a scappare e da oltre trent’anni vive in Tanzania, alle pendici vulcano Meru. Ha più di 70 anni e da poco ha fatto testamento. Alla moglie Charlotte, sposata 42 anni fa, lascia tutto quanto possiede: un casetta di mattoni con il tetto in lamiera, due fuoristrada in pessimo stato e una scuola che ha costruito con le sue mani.
A suo modo è un uomo soddisfatto della sua vita “sfrenata e violenta”, come ama definirla. Peter è uno degli ultimi esuli americani di un periodo in cui i militanti si consideravano in guerra con il governo. O’Neal è però lacerato, diviso tra due mondi, due culture, tra due due vite apparentemente inconciliabili. “Non è proprio così”, dice. “Qui in Tanzania ho continuato l’opera delle Pantere Nere, ma senza armi”. Negli anni passati ha anche finanziato un programma di scambio tra adolescenti americani poveri e giovani tanzaniani e coordina i programmi di studio all’estero di diverse università americane.
EPPURE, malgrado la lunga battaglia legale con gli Usa per veder riabilitata la sua persona e il suo passato, Peter non riesce a negare di sentirsi ancora profondamente americano. “Sono riconoscente alla Tanzania che mi ha accolto come un figlio, ma mi manca l’America: il barbecue con gli amici, il jazz e mia madre che è venuta a trovarmi da poco, probabilmente per l’ultima volta”.
Nel 2004 con finanziamenti del New York State Council on Arts, della Jerome Foundation e del Brooklyn Arts Council, è stato prodotto un documentario della durata di 71 minuti dal titolo A Panther in Africa che getta una luce completamente nuova sugli anni ’60 mostrandoci in che modo un rivoluzionario è riuscito ad applicare e realizzare i suoi valori in un altro Paese con metodi assolutamente pacifici. Il documentario ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti e ha avuto il merito di riaprire il dibattito su quella pagina ancora oscura della storia americana.
Nel suo rifugio alle pendici del Kilimangiaro, Peter O’Neal attende sereno la morte. Le sue condizioni di salute si sono aggravate. Soffre di ipertensione e problemi cardiovascolari e i leoni che affollano i suoi incubi notturni stanno per raggiungerlo. Lo sa e non ne ha paura.
Pete non è il solo esponente delle Pantere Nere che ha trovato asilo in questa parte di mondo. Non molto tempo fa a poca distanza da casa di Pete, è morto nella sua fattoria Geronimo Pratt che con lui divise la militanza, il furore e la rabbia di quegli anni lontani. La casa di Pete pullula di visitatori. Molti studenti – per lo più bianchi – vanno a trovarlo per provare l’emozione di farsi fotografare accanto a una Pantera Nera. La foto costa 30 dollari con i quali Pete mantiene la scuola. Per lo più Pete accoglie i visitatori in Swahili - ”Karibu!!”. Benvenuti – come fossero vecchi amici. L’aspetto non è più quella del rivoluzionario con il fucile in mano, ma del nonno stanco e nostalgico. Ai giovani mostra sempre filmati sulla sua vita e racconta la sua giovinezza a Kansas City dove il parco giochi comunale era aperto ai bambini neri solo una volta l’anno. “Vivevo per la strada”. Quando lo arrestarono per la prima volta il giudice gli offrì o il riformatorio o il servizio militare come volontario. Scelse la Marina.
Per l’Fbi le Pantere Nere erano terroristi, per Pete nel 1969 rappresentarono una alternativa alla droga e alla criminalità comune e dettero uno scopo alla sua vita: porre fine al razzismo e alle disuguaglianze di classe. Inutile dire che i suoi sogni di giovane rivoluzionario sono rimasti sogni, ma in Tanzania – dove lui e sua moglie sono giunti nel 1972 bene accolti dal governo socialista – hanno avuto due figli, hanno aiutato i bambini privi di mezzi, hanno fondato una scuola, si sono sentiti utili e vivi. ”Fossi rimasto negli Stati Uniti, sono certo che sarei morto da un pezzo”, dice con un sorriso.