Emilio Marrese, la Repubblica 18/6/2012, 18 giugno 2012
IL MONDO SFILA UNITO QUELLA LETTERA DI IAN CHE ANTICIPÒ IMAGINE
«Caro amico, sono un ragazzo cinese di 17 anni...». È la sera del 6 dicembre 1956 quando Ian Wing, allievo di un istituto tecnico per carpentieri di Melbourne, prende carta e penna per cambiare la storia delle Olimpiadi, con la punta della lingua tra le labbra ché in inglese non ha mica mai avuto dei voti buoni e scrivere una lettera, Dio solo sa la fatica. Neanche a leggere, la verità, se l’è mai cavata granché perché soffre di insonnia da quando si ricorda che esiste il buio e in vita sua non è mai riuscito a dormire più di 4 o 5 ore per notte. Per forza, poi, di giorno combina poco.
C’era una pendola che suonava ogni mezz’ora nell’atrio della Methodist Children’s Home, l’orfanotrofio dov’è cresciuto, e lui non se n’è mai perso un rintocco. Mamma è morta che lui era in fasce e papà già doveva badare al suo Kwong Tung Café, a una sorella di 14 anni e a un fratellino di neanche due. Quella sera del 6 dicembre 1956 Ian non sa se essere più arrabbiato o deluso. Ha sentito alla radio che ungheresi e sovietici si sono gonfiati di botte in una partita di pallanuoto, l’acqua che diventa rossa, i giornalisti che già parlano di «bagno di sangue». Gli ungheresi campioni in carica sanno parlare il russo, sono stati costretti a studiarlo a scuola, e conoscono bene anche gli insulti, li hanno ripassati assieme apposta. E ai russi saltano i nervi, a suon di gol e parolacce. Il magiaro Ervin Zador alla fine (4-0) esce dalla piscina con un occhio sanguinante. La rissa continua fuori e anche sulle tribune.
No, non è questo quello che Ian si aspettava dalle Olimpiadi, le prime
downunder
fuori dalla rotta Europa-Usa, le prime del Nuovomondo che però è troppo uguale al vecchio. Gli ungheresi odiano i russi perché dal 4 novembre i carrarmati e gli aerei dell’Armata Rossa hanno iniziato a bombardarli per stroncare la rivolta iniziata il 23 ottobre, con una manifestazione studentesca finita in massacro: un centinaio di quei ragazzi che chiedevano all’Urss di ritirare le truppe presenti fin dal ‘44 erano rimasti uccisi. Eppure proprio in febbraio era stato lo stesso Nikita Kruscev, il segretario del Pcus, a denunciare i crimini di Stalin.
Non basta. Quattro giorni prima il Granma di Fidel Castro e Che Guevara è sbarcato a Cuba dando inizio alla rivoluzione. Ma la vera partita che, in piena Guerra Fredda, rischia di far scoppiare il terzo conflitto mondiale è quella che si sta giocando a Suez con Israele, Gran Bretagna e Francia (alleati degli Usa) che combattono per riprendersi il controllo del Canale, nazionalizzato dal presidente egiziano Nasser, appoggiato dall’Urss. È per queste ragioni che ai Giochi non sono presenti Egitto, Libano e Iraq né, in segno di protesta contro l’invasione sovietica dell’Ungheria, Olanda, Spagna e Svizzera. La Cina, il paese dei genitori di Ian, nemmeno c’è: ha partecipato una sola volta nel ‘52 e tornerà nell’84. In questo clima gli atleti vivono asserragliati nel villaggio olimpico con l’ordine di non parlare con
quelli delle altre nazioni.
Ecco allora il sogno di Ian Wing: vedere, invece, tutti i partecipanti sfilare assieme e mescolati sotto l’insegna dei cinque cerchi nella cerimonia di chiusura. Gli è venuto in mente guardando dalla finestra di casa, al
16 di Bourke Street, la
gente uscire allegra e disordinata dal teatro. Nessuno ci ha mai pensato prima, sarebbe la prima volta. «Non sarebbe bello se tutto il mondo fosse una sola nazione?» scrive, tra De Coubertin e John Lennon, allegando anche un bozzetto. Ma non si firma, per pudore: «Credevo che l’avrebbero ritenuta
una sciocchezza». Di notte va a lasciare la sua busta nella buchetta del comitato in Little Lonsdale Street, attento a non esser notato.
Due giorni dopo i giornali non annunciano novità, Ian scrolla le spalle e decide di passare il sabato pomeriggio al cinema. Quando esce dalla sala, nota una folla davanti alla vetrina di un negozio: il televisore sta trasmettendo la parata e gli atleti di tutto il mondo non marciano, ma sfilano mischiati tra loro, ridendo, scherzando e salutando il pubblico dell’Olympic Park. La prima marcia della Pace. Da quel giorno tutte le Olimpiadi finiranno così.