Alessandra Carini, la Repubblica 18/6/2012, 18 giugno 2012
BENETTON
PONZANO VENETO (Treviso)- Nella quiete del paesaggio disegnato dagli architetti di Villa Minelli, sede storica della Benetton, la figura del “signor Luciano” è per tutti un’immagine familiare. A settantasei anni Luciano Benetton ha lasciato tutte le cariche dell’azienda che adesso è nelle mani di suo figlio Alessandro, che, a pochi chilometri da qui, negli stabilimenti di Castrette, guarda la prima sfilata e la campagna pubblicitaria della sua presidenza. Tra le mani Luciano tiene l’ultima delle sue “creature”. Non un maglione, ma un libro curato da Fabrica, che ripercorre la storia dell’azienda e della sua avventura dagli esordi, a metà anni cinquanta, ad oggi: “Benetton l’impresa della visione” è il titolo. Tra le prime pagine l’immagine, in bianco e nero, di una pubblicità: una signorina impostata, dal sorriso stereotipato, che indossa un maglione d’altri tempi. Sullo sfondo un motto da Carosello: “Più bella è la maglia, più bella sembrate”. Collezione Lady Godiva, maglieria Benetton. Sembra passato un secolo dalla suora che bacia un prete di Oliviero Toscani. O dalle modelle che presenteranno la prossima collezione e che
escono sulla scena lacerando un foglio di carta. «Ed è questa distanza che abbiamo voluto ripercorrere — dice Luciano — quando abbiamo rivisto l’archivio storico di Villa Minelli, le foto, i nostri ricordi. Abbiamo ricostruito una vicenda che non è solo quella di quattro fratelli che hanno creato e vissuto un’impresa e un’epoca straordinaria. La nostra, e quella dei nostri collaboratori, è un’avventura fatta anche di architettura, di comunicazione, di costume».
Qual è il ricordo più vivo degli inizi della Benetton?
«L’entusiasmo, la voglia di crescere. Sebbene venissimo da una situazione di povertà, quando abbiamo cominciato a lavorare e ad avere i primi successi il mondo sembrava appartenerci».
E oggi?
«È tutto più difficile. Allora avevamo il mercato che cresceva, i consumatori sottocasa, tutto era quasi nelle nostre mani. Oggi i mercati li devi andare a cercare, la produzione sei costretto a farla altrove. Le regole si sono complicate: c’è la Borsa che penalizza il tuo titolo magari perché la Grecia ha sbagliato i conti…».
E magari gli analisti dicono che dovete somigliare più a Zara che alla Benetton di oggi…
«Ma noi siamo e resteremo una
caso a parte. È una questione di dna che ci ha trasmesso questa Regione che è sempre stata un po’ autonoma e ha cercato soluzioni lavorando senza chiedere nulla a nessuno. Alla competizione e al cambiamento con il nostro dna siamo abituati».
Che apprezza oggi dell’Italia?
«È un paese di una bellezza straordinaria, tutti vogliono venire qui a vedere, viaggiare. Offre molto per il turismo. Ma non ha un sistema per attirare imprese, si rischia di uccidere quelle che ci sono. E in queste zone quello delle piccole e medie imprese era un tessuto che dava orgoglio alla società: se lo facciamo morire non vedo alternative».
Ma lei dice anche che la produzione si è costretti a farla altrove.
«È vero, ma non si possono scoraggiare le nuove iniziative. Qui è tutto complicato, dalle regole al credito bancario. E non si può dire ad un giovane, scusa ti penalizziamo, la colpa è degli errori del passato ».
Anche lei sostiene che l’Italia non è un paese per giovani?
«In un certo senso sì. Una situazione congelata ha condizionato
una generazione che rischia di andare perduta. Non ha prospettive e manca un appoggio dal nostro sistema - scolastico, sociale, politico e anche familiare - che ha generato una forma di sottocultura insufficiente a rendere i giovani capaci di interpretare e di affrontare
la realtà».
Aveva ragione Tommaso Padoa Schioppa a rimproverare i bamboccioni?
«In un certo senso sì. Nel mondo anglosassone è un’altra storia. Un anno fa al mondiale di rugby degli under 20 l’Italia prese una sonora sconfitta dalla Nuova Zelanda. L’allenatore, John Kirwan, un ex grande del rugby degli All Black, alla fine del match mi dette un’interpretazione che mi colpì: i ventenni neozelandesi sono mentalmente e fisicamente degli uomini. Gli italiani sono ancora dei ragazzi».
Non trova che la loro mentalità stia cambiando?
«Si, forse qualcosa dello spirito di sacrificio e di avventura che segnò il mondo degli esordi della Benetton si sta recuperando. Ma se non si vuole far espatriare l’avamposto di una generazione bisogna
che cambi anche il sistema».
Cosa non va in Italia?
«L’organizzazione dello Stato, la burocrazia, una mentalità. Ci sono cose che oggi mi paiono incredibili
».
Ad esempio?
«Che si possa discutere e sollevare polemiche su regole ovvie: ad esempio sul fatto che un dipendente pubblico abbia le stesse norme di un dipendente dell’industria e possa essere licenziato. Come se il mondo si potesse dividere in impiegati di serie A e B. Che si possa accettare che, a venti anni dalla vendita di un terreno, uno si ritrovi ancora proprietario perché il catasto non è stato aggiornato. Vuol dire che per vent’anni un’organizzazione e i suoi impiegati hanno fallito, nessuno si è fatto carico della responsabilità di farlo funzionare».
E come si pone rimedio?
«L’Italia non possiamo strizzarla più. Si strizzi la politica, si riformi lo Stato e l’amministrazione».
Lei lavora ancora?
«Io? Non ho mai lavorato. Se avessi dovuto stare seduto in una banca, ecco per me quello sarebbe stato un lavoro, e duro».
Neanche agli inizi quando faceva il commesso?
«Quando si ha una visione, delle aspirazioni, si è determinati e disposti a rimettersi in discussione e
accettare dei rischi... Questo non è un lavoro è una realizzazione di sé stessi. Ed io sono stato molto fortunato
».
Che cosa è la fortuna?
«È quello che ti succede al di là di quello che puoi prevedere. È come la palla del rugby che quando rimbalza sull’erba è imprevedibile, va dove vuole. La fortuna è avere un giocatore della propria squadra al posto giusto e pronto per riceverla
».
Si diverte ancora fuori dal “lavoro”?
«Molto meno. Le redini sono passate ad altri. Non sono più un cercatore d’oro che scava la vena finché non ha trovato. Ma mi interessa vedere il mondo, viaggiare, dare delle idee, fare delle previsioni ».
Faccia una previsione: come finirà questa battaglia sull’Europa e sull’euro?
«Abbiamo l’esperienza per venirne fuori. E non credo sia nell’interesse di alcuno, né dell’Europa né della Germania, mandare l’euro all’aria. Noi dobbiamo avere più disciplina ma anche i tedeschi devono essere lungimiranti e avere rispetto per gli altri Paesi. Non possiamo rientrare tutti insieme e nello stesso momento. Sarebbe una catastrofe».