Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  giugno 17 Domenica calendario

ROCCO PAPALEO

«Non mi piaccio. Però ho bisogno di piacere. Sono un po’ come un personaggio del libro di Kundera che nell’Insostenibile
leggerezza dell’essere
veniva definito ballerino, uno che non desidera imporsi, ma occupare la scena, con modi garbati, per farsi amare. A un patto: essere ballerino di seconda fila. Perché è lì che mi emoziono, stando un passo indietro. Sono un ballerino sincero, che ama il suo ballo. E come spettatore guardo nelle seconde file e nelle ultime: ci scopro l’umanità, la complicità». Rocco Papaleo è quello che quando recita è stralunato come se cantasse, che quando canta è poetico come se recitasse e che ha fatto egregiamente professione di “secondo” con Gianni Morandi al Festival di Sanremo. «La voglia di intrattenere... Da giovane la mia naturale vocazione mi avrebbe portato in un villaggio turistico, però poi mi sono imbattuto in buone compagnie. Il professore di storia e filosofia, un paio di amici sognatori e meravigliosi scrittori di ogni tempo (direi Platone, Omero, Giovanni Pascoli, Agota Kristof e Sandro Veronesi, ma pure i Roth, gli Amos Oz, i Queneau)».
È un artista curioso e virtuoso, con un senso della misura che non sapresti dire se è fairplay, timidezza, modestia, ritegno. Lui una spiegazione se la dà. «Credo di avere pudore a ostentare la felicità, e al tempo stesso ho una spudoratezza molto vicina alla naturalezza che faccio risalire all’infanzia in casa: da noi non c’era la chiave nel bagno, e io, mio padre e mia madre eravamo abituati
alla massima confidenza, e non c’era niente di strano che io entrassi mentre mamma era nella vasca o mentre papà faceva la pipì». Campione oggi di inflessioni umane e lucane, era bravissimo in italiano, a scuola. «Sempre ottimi risultati, e un compito d’italiano (su Corradino di Svevia) mi fu una volta annullato perché era così bello che il professore non ci credeva l’avessi fatto io: ci rimasi male, poi la considerai una gratificazione. Al liceo mi ha distratto una tempesta ormonale, nella mia vita sono entrate le ragazze, anche se non ero un Casanova ma un sognatore: ci pensavo tanto, con pochi risultati. All’università sono partito con Ingegneria, poi ho cambiato per Matematica, e non ho finito perché ho fatto scuola di recitazione».
Un’imbeccata, più che un intuito. «Ricordo due opportunità, a distanza di tempo tra loro. Arrivai terzo alla tappa che Cantaitalia organizzò nel mio paese, e dovevo seguire il tour del festival ma l’organizzatore fu arrestato subito. Poi nell’88 entrai come comico nel cast fissod’unoshowconMillyCarlucci,andai bene ma dopo due puntate la trasmissione fu interrotta. A farmi fare le ossa all’Actors Studio di Roma ci pensò una mia amica che mi iscrisse, e dopo un approccio superficiale il teatro mi risucchiò, provai un irresistibile interesse per l’uso delle parole, per come dirle. Alla scena alternavo lo studio della chitarra ». Senza badare alla forma. «Andavo all’arrembaggio. Mi garantivo gli extra lavorando come lavapiatti in un locale del centro di Roma, a piazza Rondanini, dove veniva Benigni. Poi feci il Mimo Teatro Movimento, frequentai la scena off, mi buttai nel cabaret musicale, recitai nella
Madre
di Witkiewicz, e andavo anche a fare serate con una cantante e due ballerine in un night di Milano, tornando a Roma di notte. Ero pieno di energia, e guadagnare mi emozionava. Cercavo un riscatto pensando a mio padre, impiegato all’ufficio delle imposte, che tornava a casa col mal di testa, e per me il lavoro era un mal di testa a Lauria, in provincia di Potenza».
A forza di mettersi al riparo dai narcisismi, il suo nuovo album s’intitola
La mia parte imperfetta.
«La gestione dei propri difetti è decisiva. Faccio l’esempio della mia miopia. L’ho messa a frutto, spingendomi verso un’osservazione più profonda delle cose. Dovremmo amare di più le debolezze e le incapacità, senza tentare di nasconderle, facendone
valori aggiunti». Conoscendo Papaleo, escludiamo che giochi al ribasso, o a fare l’elogio dell’handicap. «L’insicurezza è l’unica cosa di cui non sono insicuro. Ho avuto sempre coscienza dei miei limiti, ho riconosciuto le superiorità degli altri: chi mi surclassava a pallone, anche se non ero una scarpa; i più bravi di me a scuola, anche se non andavo male; quelli che dicevano cose che stentavo a capire, e non è che non avessi arguzia; per non dire della dimensione sentimentale di donne irraggiungibili».
C’è da chiedersi dove poggi la sua innegabile comunicazione artistica. «Man mano che mi proponevo, e che su di me aumentava l’attenzione, è avvenuto che ha preso corpo un personaggio somigliante a me. Mai affetto da invidia. Ho sempre guardato con rispetto e ammirazione chi è avanti. Non avendo bisogno di clamori o lussi, mi sono trovato artisticamente corazzato, e forse devo anche alla mia professione mista se non sono mai entrato in competizione diretta con nessuno». Ma in carriera c’è una “filosofia” della seconda fila,
o ha prevalso la pratica? «Hanno contato le circostanze. Al cinema, con
I laureati,
Pieraccioni è stato il mio talent scout. Alla fine degli Ottanta ho condiviso partenze da club e da spettacoli comico- musicali con Rodolfo Laganà: la confusione di identità portava a risultati surreali. C’è poi stata l’esperienza con la nuova drammaturgia, col minimalismo, quando feci l’attore in
Trompe l’oeil
all’Argot. E c’è il capitolo con Alessandro Haber in
Un’aria di famiglia
di Jean-Pierre Bacri. Più volte ho vissuto come secondo attore, con l’ambizione del luogotenente che adora il proprio comandante. Come quando in
Eduardo al Kursaalho
affiancato Silvio Orlando, che era migliore di me nella sua complessità, così acuto, lucido, controcorrente, quasi un partner-maestro. Nella nostra società non vogliamo più riconoscere i maestri, la vogliamo sapere tutti lunga, e invece io sto in ascolto. Bruno Corbucci mi ha regalato un paternalismo saggio, una dialettica che non avevo avuto da mio padre, e mi ha dato la voglia di essere compreso nonostante mi chiedesse di usare il dialetto». Ci siamo. La sua Lucania, che gli è valsa il successo del film
Basilicata Coast to Coast.
«La Basilicata mi ha “scolpito” in seconda fila, però ho sempre visto quest’essenza culturale non come una zavorra ma come una condizione rispettabile, perché è anche liberatorio, venir fuori così. Io non smetterò mai di avere dentro le mie origini, anche se il viaggio che ho davanti mi porta altrove. Ora, ad esempio, mentre sto per aver voglia di una storia di metropoli (sono invaghito di Torino dove ho trascorso un mese e mezzo, evitando Roma dove sono troppo invischiato), nel prossimo film racconterò un altro Meridione, più generico, non connotabile, con una vicenda di imprenditorialità emotiva e di rinascita legata alla ristrutturazione di un faro convertito in resort, e il titolo sarà
Una piccola impresa meridionalecome
il mio ultimo spettacolo». Cosa non è stato detto del Papaleo eclettico ma ligio a fare da supporto, a Sanremo... «L’ho sfangata, e per me poteva essere una catastrofe, in uno show pieno di turbolenze. E invece un senso di modestia mi ha fatto sentire onorato con celebri musicisti e con gente di quinta fila. Aggiungiamoci una grande relazione con Morandi, fratello maggiore, e un abbraccio che ho scambiato con Dalla, vera “prima fila”...».
Domanda: come la mette tra etica ed
estetica? «Tutte e due. L’etica è mia, l’estetica ha a che fare con la produzione». Idoli? «Amando lo sport sono cresciuto con la passione per eroi dal risvolto poetico, come Mennea, e poi ho un debole per artisti irraggiungibili». Amicizie? «Vivo a Roma in un quartiere popolare, prendo la metropolitana, ho relazioni varie, amici trasversali, e un giro fisso non ce l’ho». Papaleo animale notturno? «Lo sono stato, ora molto meno. Adesso la corrente mi porta, prima dovevo remare di più». Le cose che danno piacere? «Le dico a memoria una poesia di Brecht: “Il primo sguardo dalla finestra al mattino/ il vecchio libro ritrovato/ volti entusiasti/ neve, il mutare delle stagioni/ il giornale/ il cane/ la dialettica/ fare la doccia, nuotare/ musica antica/ scarpe comode/ capire/ musica moderna/ scrivere, piantare/ viaggiare, cantare/ esseri gentili”». Di che s’indigna? «Della presunzione». Un’idea della morte? «Man mano che mi ci avvicino, la temo di meno. Moderatamente appagato, chissà...».
Per lui l’amore non può essere da ballerini di retrovia. «Ho fatto il giro di boa a quarant’anni incontrando mia moglie. È stata una danza sotto il massimo dei riflettori, lei era la donna dei miei sogni e mi ha ricambiato. E se dopo l’amore è finito, ha lasciato una grandissima traccia, che è mio figlio di tredici anni. Con la madre siamo divorziati da dieci, restando però legatissimi, abitando nello stesso palazzo, io al quarto piano, e lei con mio figlio e col nuovo compagno, adorabile uomo, al secondo. Quel caseggiato è la mia prima fila». Qua e là dà sempre spettacolo. «Sento che c’è umanità fra me, la mia band e il pubblico. E dico che non mi piaccio, ma in fondo è così che mi piace essere».