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 2012  giugno 18 Lunedì calendario

ENERGIA. LA RIVOLUZIONE AMERICANA

Fra una settimana presenterà il suo rapporto a New York e a Washington a nome della Kennedy School of Government di Harvard, l’università di cui è «fellow» in pianta stabile. Poi Leonardo Maugeri, ex top manager dell’Eni, replicherà per i congressisti della Camera dei rappresentanti del Senato. Lo studio per il quale Maugeri sta per intraprendere il suo «road show» è di quelli che potrebbero segnare una svolta per un’industria decisiva, come segnala già il titolo: «Petrolio, la prossima rivoluzione. L’impennata globale e americana senza precedenti nella capacità di produzione del petrolio e cosa significa per il pianeta».
Dopo un anno di analisi del potenziale dello «shale oil» e del «tight oil», il greggio estratto dalle formazioni scistose, Maugeri ha concluso che gli Stati Uniti su questo fronte sono all’inizio di una nuova svolta tecnologica, le cui ripercussioni si avvertiranno ovunque. Anche nella petrolchimica e nel settore della raffinazione in Italia.
Maugeri, qual è il messaggio principale del suo studio?
«Che tutti continuano a sottostimare il fatto che nelle viscere nel pianeta c’è ancora una quantità enorme di petrolio convenzionale e non. E i progressi della tecnologia stanno rendendo sempre più facile lo sfruttamento dei nuovi giacimenti e anche di quelli vecchi che si credevano in via di esaurimento».
Cos’è il petrolio non convenzionale?
«È quello che si estrae in modo diverso o ha qualità differenti: le sabbie bituminose del Canada, il greggio "pesante" e "ultra-pesante" del Venezuela, o adesso soprattutto il petrolio da scisti, cioè estratto dalle formazioni rocciose, fratturando la materia con acqua, sabbia o ceramica e agenti chimici proiettati con grande forza. Questa procedura avviata negli Stati Uniti può aggiungere l’equivalente di un grande Paese del Golfo persico alla produzione mondiale di petrolio: più dell’attuale produzione iraniana».
L’estrazione da «shale oil» non è troppo costosa?
«Negli Stati Uniti è già realtà, in base a ciò che ho potuto vedere dal North Dakota al Texas. È una produzione che riesce a reggere con un prezzo del greggio fra 50 e 65 dollari. Ciò farà sì che entro il 2020 gli Stati Uniti saranno autosufficienti per il 65% del loro fabbisogno e se si considera anche il Canada, il Brasile e il Venezuela, il continente americano potrebbe non aver bisogno di importare petrolio dal resto del mondo».
Lei prevede in otto anni un aumento di produzione di 17 milioni di barili al giorno dai circa 90 milioni attuali e potenzialmente del 50%. A un certo punto i prezzi potrebbero crollare?
«È molto plausibile. Tutto si gioca nei prossimi tre anni, quando gran parte della capacità di produzione globale, anche ma non solo dello "shale oil", sarà diventata irreversibile. Se i prezzi crolleranno prima, gli investimenti potrebbero frenare per poi riprendere in seguito. Altrimenti la capacità sarà già stata creata e nel medio periodo continuerà probabilmente a crescere a ritmo impressionante».
Questa trasformazione con lo «shale gas» a poco prezzo e ora con lo «shale oil» può aiutare a riportare negli Stati Uniti l’industria pesante?
«In questo momento in America si stanno progettando nove nuovi impianti petrolchimici di dimensioni come non ce ne sono in Italia. È manifattura di vecchio stampo, investimenti da 40 miliardi di dollari con una capacità di produzione di polietilene molto alta e favorita dalle nuove risorse in idrocarburi da scisto. Tra l’altro, con il rischio di effetti devastanti per l’Europa e per l’Italia».
Perché sarebbe un problema per l’industria italiana?
«Se questi investimenti americani andranno avanti, entro pochi anni gli Stati Uniti diventeranno un grandissimo esportatore di plastiche nel mondo, che si aggiungerà alla concorrenza dal Medio Oriente. Ho stimato che l’effetto combinato della rinascita americana nella petrolchimica e nella raffinazione del greggio mette a rischio solo in Italia ottomila posti di lavoro diretti e 30 mila indiretti».
Cosa suggerisce per evitare questo impatto?
«Da noi settori come la petrolchimica e la raffinazione petrolifera devono andare incontro a processi di riconversione per evitare drammatiche chiusure di posti di lavoro. Ciò riguarda tutta l’Europa, ma l’Italia è particolarmente debole. È molto probabile che tra non molto gli Stati Uniti potranno iniziare a esportare non il petrolio, perché per loro non sarebbe legale, ma carburante già raffinato a prezzi assolutamente competitivi. Sia Barack Obama che Mitt Romney, se dovesse vincere, asseconderanno questo processo: è il più grande fattore di crescita e sviluppo dell’occupazione in America oggi. Potenzialmente sono tre milioni di posti di lavoro».
Se gli Stati Uniti vanno verso l’autosufficienza energetica, che ruolo avrà il Medio Oriente?
«Guarderà sempre di più all’Asia come suo mercato naturale. E la Cina sarà progressivamente coinvolta nell’area mediorientale, anzi lo è già in Paesi come l’Iraq. Nel frattempo, i tecnici cinesi stanno già cercando di imparare dagli americani le tecniche dell’estrazione dello "shale oil" e dello "shale gas" da applicare sul loro territorio nazionale».
Federico Fubini