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 2012  giugno 18 Lunedì calendario

IL GUSTO E IL VIZIO DI ESSERE ROMANI - È

da pochi giorni uscito un libro sfrontato e ambizioso, parziale, divertente e perfido: il titolo è già abbastanza eloquente, Romani (Marsilio, pp. 256, 19); ma è il sottotitolo che spiega subito il genere di sfida, a metà tra il reportage e l’analisi mediologica e di costume — Guida immaginaria agli abitanti della Capitale — in cui si misura Angelo Mellone, dirigente Rai e intellettuale in cammino da destra, scrittore e commentatore politico, «un immigrato tarantino felicemente integrato a Roma».
Ecco, è da quest’ultima sua affermazione che occorre partire. Perché solo gli occhi di un estraneo che arriva e si accasa (sia pure affiliandosi, con spirito di sacrificio, alla causa calcistica biancoceleste, minoranza nell’impazzimento giallorosso) possono avere la lucidità e la forza di vedere ciò che i romani non vedono. Il romano medio, infatti, si piace moltissimo. E si piace così com’è. A volte, certo, finge di indignarsi innanzi alla solita rappresentazione retorica che della sua comunità chiusa dentro il Grande raccordo anulare viene fatta in banale ritornello: i rigatoni con la pajata, il Colosseo, Totti, Alberto Sordi, Antonello Venditti, Campo de’ Fiori, e via dicendo. Ma è un’indignazione scatenata, di solito, da puro opportunismo. Poi ripiomba nel torpore. Che è un miscuglio di compiacimento e rassegnazione. Noi romani, si ripetono i romani, siamo così.
Ecco, appunto: ma così come? Mellone, allora, partendo dal presupposto che «i romani de Roma sono ormai una piccola minoranza, biologicamente in via d’estinzione», indaga sull’autentica identità romana — liquida, appiccicosa, leggera, chiacchierona — che assale chiunque vada a vivere nella capitale e si fa spesso veicolo di egemonia sull’immaginario italiano.
Capitolo dopo capitolo («Il Romano delle Nevi», «Il neo-coatto», «Il Progressista Terrazzato», «Il Tipino Muccino»: i più indovinati) Mellone inizia un viaggio che non solo coglie alcune verità non scontate — «Roma più che una metropoli, è un agglomerato di villaggi: ciò genera un fortissimo senso di appartenenza al quartiere, sicché d’abitudine ci si definisce romano de San Giovanni, piuttosto che de Montesacro» — ma come un palombaro egli s’immerge nella quotidianità, e l’attraversa.
Mellone cammina e ascolta. «Abbello, abbella. Anvedi. Ao’. Damm’er cinque, fraté». È lo stesso linguaggio ascoltato nella vineria dei fratelli Cesaroni, alla Garbatella, luogo di fiction televisiva e di culto mediatico. Così, riflette Mellone, «il Cesarone finisce con il rappresentare il romano iperreale». Esattamente come il coatto è il prodotto incredibile dell’immaginario della romanità e del romanismo. «L’epifania del carattere profondo del romano quando si trasforma in romanesco, del popolare quando volge al popolaresco, senza limiti di pose e di linguaggio».
Mellone sale poi sulle terrazze dove si radunano certi pensatori di sinistra, i politici che arrivano con l’ultima amante, gli scrittori di nicchia, gli attori che vorrebbero recitare solo con Nanni Moretti. E quando scende risale le strade di Roma Nord, «luoghi piuttosto omogenei per reddito, ascensori sociali e cilindrata dei veicoli: quell’agglomerato dove tanto i fratelli Vanzina quanto Moccia attingono per trovare ispirazione sulle nuove tendenze della borghesia e dei suoi figli».
La guida evita di addentrarsi nei vialoni delle immense periferie, che pure producono modelli, linguaggi, abitudini. Questo rappresenta una lacuna, nell’indagine, ma è anche vero che l’esemplare di romano rappresentato nel frullato mediatico proposto dalla televisione e dal cinema, e dunque percepito dal resto del Paese, non è certamente rintracciabile lì, dove Pasolini raccontava la vita delle borgate e dove ora sorge la Roma resa grigia dal cemento armato e dalla solitudine dell’emarginazione.
Il libro, che ha una scrittura densa e rigogliosa, non è avaro di citazioni illuminanti — Erri De Luca: «Roma è una città pratica di estranei» — e nella narrazione è ben dentro anche gli ultimi memorabili eventi, come la nevicata dello scorso inverno, quando ai primi fiocchi fu decretato un emozionato ordine di evacuazione — «Nevica, anzi nevica forte. Tornate a casa». Inoltre ha la forza di essere complessivamente appassionato e attendibile e il limite, in alcuni passaggi, di essere spietatamente cinico (ma qui è il romano che parla: e i romani adorano essere cinici e spietati con gli altri, mai con se stessi).
Fabrizio Roncone