ROBERTO CONDIO, La Stampa 18/6/2012, 18 giugno 2012
Cuba ha finito i miracoli Lo sport perde i pezzi Campioni in fuga, strutture fatiscenti: a Londra sarà dura riscattare Pechino L’allarme c’è già: per la prima volta non ha qualificato nemmeno una squadra L’ ultima batosta, lunedì scorso, è stata la morte di Teofilo Stevenson
Cuba ha finito i miracoli Lo sport perde i pezzi Campioni in fuga, strutture fatiscenti: a Londra sarà dura riscattare Pechino L’allarme c’è già: per la prima volta non ha qualificato nemmeno una squadra L’ ultima batosta, lunedì scorso, è stata la morte di Teofilo Stevenson. Piangendo il pugile da leggenda, icona della Revolución, Cuba ha ricordato i tempi d’oro. Quando, alla faccia dell’embargo, i suoi campioni stupivano il mondo. Stevenson, tre volte olimpionico da Monaco 1972 a Mosca 1980, fu tra i primi. Ne sono seguiti tanti altri, anche quando il rubinetto sovietico s’è chiuso. Il serbatoio dell’isola, però, ora è agli sgoccioli. Perde i pezzi, il glorioso sport cubano. E non è solo questione di miti che se ne vanno. I problemi veri sono quelli di chi resta. Atleti mai così malmessi, in 53 anni e mezzo di castrismo. Prima ancora che Londra 2012 cominci, c’è già un minimo storico: come avvenne soltanto a Los Angeles 1984 e Seul 1988, quando però fu Fidel a boicottare, Cuba non esisterà negli sport di squadra, che nelle ultime cinque edizioni avevano portato nove medaglie, ben sei d’oro. E se il baseball, mania nazionale, non c’è perché il Cio lo ha cancellato dai Giochi, negli altri dodici tornei la qualificazione è stata semplicemente fallita sul campo. Gli ultimi a toppare sono stati gli uomini del volley, due domenica fa a Berlino. Tre match-ball sciupati nella sfida decisiva contro la Germania. Più sfortunati o sciagurati? Nel dubbio, diciamo traditi. Da quei compagni che li hanno lasciati ma soprattutto dal regime che pensa e agisce come nel 1959. Meno di due anni fa, Cuba era stata splendida seconda nel Mondiale italiano. Con quel gruppo, giovane e guerriero, a Londra avrebbe puntato all’oro. Ma tre titolari non ne potevano più: volevano misurarsi all’estero, guadagnare e crescere, anche per fare più forte la loro Nazionale. Chi conta all’Avana, però, continua a dire: «Lo sport rivoluzionario non è merce e non si vende». E allora, per evitare «diserzioni» durante le trasferte, capitan Simon, il regista Hierrezuelo e lo schiacciatore Leal sono stati messi fuori squadra. Un triplo autogol che ha portato all’esclusione da Londra. L’ultimo segnale di un declino progressivo, difficilmente frenabile. Ve la ricordate Cuba a Barcellona 1992? Il Muro era caduto da poco ma i benefici degli aiuti dell’Urss ormai dissolta si sentivano ancora. La più grande isola delle Antille diventò la più piccola potenza dello sport mondiale, mettendo in vetrina atleti dalla straordinaria fisicità. Chiuse quinta nel medagliere, con 14 ori. Fu il top. Pechino 2008 è stato invece il flop: 28° posto in classifica, due trionfi contro i 9 di Atene 2004. Vittorie solo per Robles nei 110 ostacoli e Lopez nella greco-romana. Ventitré podi su 24 individuali; 16, ovvero due terzi, centrati tra boxe, judo, lotta e taekwondo. Morale: Cuba che tiene duro nelle discipline basiche, soprattutto negli sport di co m b at t i m e n t o, laddove per allenarsi è richiesto il minimo di strutture e attrezzature. Cuba che non riesce più fare squadra e resiste grazie ai suoi talenti più puri. La domanda è: fino a quando ce la farà? Propaganda e vigilanza non frenano la fuga di sportivi di alto livello. Di gente che si chiede perché gli artisti da anni possano andare a lavorare all’estero e loro no. Appena possono, così, spesso tagliano la corda. Pugili, ciclisti, pallanuotisti, soprattutto assi del baseball: più di 350 negli ultimi 20 anni. Da noi, la colonia più numerosa è quella dei pallavolisti. Dennis, i due Hernandez, Gato, Marshall, Gonzalez, Poey, Portuondo, Juantorena: assieme avrebberofatto una Nazionale da oro olimpico. L’ultimo arrivato è stato proprio Simon, il capitano del 2010, il centrale più forte del mondo. Per spiegare il suo stop, la stampa di regime scrisse: «Ha chiesto un periodo di riposo». Se lo sta godendo a Piacenza, in attesa che la Federvolley internazionale gli dia il nulla-osta per giocare in A1. Naturalmente, chi diserta è una minoranza. Chi resta, però, da tempo fa i conti con la triste realtà: lo sport ad alto rendimento, che era uno dei vanti del regime, ora non è più una priorità. Non ci possono essere «spending review» per chi ha solo spiccioli in cassa e non può prescindere dal principio rivoluzionario dello «sport per tutti». Si taglia, indiscriminatamente. Si lasciano cadere a pezzi impianti devastati dal tempo. Le Nazionali del volley non giocano partite all’Avana da due anni perché servirebbe più di un milione di dollari per ridare l’aria condizionata al palasport da 14mila posti della Ciudad Deportiva. Avrebbero bisogno di lavori urgenti anche lo stadio Latinoamericano, il centro di preparazione del Cerro Pelado, il «Kid Chocolate» tempio della boxe. Lì si allenano le speranze per Londra. O almeno ci provano. Visto che a lamentarsi adesso è anche Dayron Robles, uno che ha sempre dedicato ogni suo trionfo alla Revolución: «Mancano tante cose eppure qui non c’è più nessuno che ti chieda se ne hai bisogno. Poi, però, tutti pretenderanno la medaglia». Allarga le braccia anche Alberto Juantorena. L’ex re dei 400 e 800 ora è vicepresidente del Comitato olimpico. Benedetto da Fidel, diventerà il numero 1 dopo Londra e intanto dice: «L’unica strategia possibile è risparmiare e studiare bene dove mettere le poche risorse che abbiamo. Una cosa è certa: non venderemo mai i nostri atleti». La crisi di risultati, evidentemente, non scuote chi governa lo sport. Il potente Inder, di fatto un ministero, preferisce parlare «dei nostri 15mila tecnici mandati negli ultimi due anni a lavorare in 106 Paesi». E quando al suo presidente Christian Jimenez si chiede dei Giochi ormai dietro l’angolo la risposta è: «La preparazione procede in modo soddisfacente, secondo i piani». A Londra, però, andranno non più di cento atleti. Tanti per un Paese di 11,2 milioni di abitanti, pochi (specie quelli con speranze concrete) per chi ha un passato così importante. Per cancellare Pechino servirà un miracolo. Lo può fare solo la boxe, che a Cuba ha già dato 32 dei 67 ori olimpici. Felix Savon, il fenomeno che dal 1992 al 2000 imitò il tris di Stevenson, è ottimista: «Portiamo otto pugili giovani, 4 o 5 possono vincere». Sarebbero colpi utili solo a frenare l’emorragia. Per tornare sano e con un futuro davanti lo sport cubano ha bisogno di una svolta vera.