MARCELLO SORGI, La Stampa 18/6/2012, 18 giugno 2012
Era L’Ora di mettere la mafia in prima pagina - La parola mafia sui giornali non esisteva. Non si pubblicava, né in prima né in ultima pagina
Era L’Ora di mettere la mafia in prima pagina - La parola mafia sui giornali non esisteva. Non si pubblicava, né in prima né in ultima pagina. La catena di morti ammazzati che scandivano la vita di Palermo veniva presentata, senza sprezzo del ridicolo, come una serie di inspiegabili incidenti, «commerciante ucciso a sorpresa», ed era uno a cui avevano quasi staccato la testa con due colpi di lupara, «regolamento di conti nella malavita», ed era una strage che aveva lasciato per terra cinque cadaveri, e così via. Finché un giorno un piccolo quotidiano del pomeriggio e il suo giovanissimo direttore decisero di cominciare a raccontare la verità. La storia dell’ Ora di Palermo e della ventennale, storica direzione di Vittorio Nisticò, dal 1954 al ’75, rivivono in un libro curato da Michele Figurelli e Franco Nicastro ( Era L’Ora, il giornale che fece storia e scuola , pp. 254, € 14), ricavato da una serie di interventi e ricordi vissuti, e pubblicato in questi giorni dall’Istituto Gramsci Siciliano. Basta già scorrere l’elenco delle firme che vi figurano, per ritrovare una piccola ma significativa antologia di giornalisti che, dopo essersi fatti le ossa nello stanzone della redazione di piazzetta Napoli a Palermo, sono approdati in tutti i maggiori giornali in Italia e all’estero, e qualcuno ne hanno diretto. Era l’ultima generazione, la terza, di cronisti nati e cresciuti alla scuola di Nisticò, uno di fronte al quale i grandi inviati arrivati dal Nord, i Bocca, Pansa, Madeo, Man, Ghirotti, si sedevano amichevoli e rispettosi allo stesso tempo, per coglierne un consiglio, uno spunto, anche una delle formidabili battute che presto sarebbero finite in un titolo, nell’attacco di un pezzo, o semplicemente nel cestino, perché Vittorio si innamorava e disinnamorava rapidamente dei suoi stessi colpi di genio. Giovane, per quei tempi e per andare al fronte nella capitale della mafia, Nisticò, calabrese, era piovuto a Palermo a soli trentacinque anni. Da notista politico nei corridoi della Camera, dove aveva uno speciale rapporto di amicizia con Aldo Moro, all’isola che neppure conosceva, pur essendo uomo del Sud. L’Ora era stato fondato nel 1900 dai Florio, dinastia di imprenditori e armatori geniali ma dissipatori, e da un altro mitico direttore, Vincenzo Morello, che si firmava «Rastignac». Nella decadenza seguita a un inizio scintillante - sulle sue pagine scrivevano intellettuali come Matilde Serao e Vincenzo Scarfoglio -, era finito in mano all’Editrice dei giornali fiancheggiatori del Pci guidata da Ugo Terenzi, abile e disinvolto manager comunista dell’epoca togliattiana, che fin dal colore rossoarancio dei due ciuffi che portava sulle tempie rivelava chiaramente le sue idee e il suo temperamento, e aveva puntato non a caso su un irregolare come Nisticò. Come spiega Figurelli nel suo saggio, l’approccio di Nisticò a Palermo e alla Sicilia fu «politico». Ma non nel senso di addentrarsi nella rete complicata di rapporti interni alla Democrazia cristiana che governava l’isola indisturbata. Piuttosto, di capire che quel che cambiava, o non cambiava, in quella terra lontana, ancorata a una specie di medioevo fuori tempo di quattro secoli, dipendeva, appunto, dalla forza dell’altro potere sotterraneo che la dominava incontrastata. Così Vittorio decise di mettere la mafia in prima pagina. L’inchiesta che nel 1958 doveva portare una bomba in tipografia e all’ Ora la solidarietà dell’Italia intera, a cominciare dal Presidente della Repubblica Gronchi, ma non degli esponenti politici locali, era stata affidata a sette giornalisti, scelti tra i migliori della loro generazione, come Marcello Cimino, Mario Farinella e Mauro De Mauro, o fatti venire da Roma come Felice Chilanti e Gilberto Nanetti, e tutti presentati con le loro facce stampate sul giornale come se non avessero niente da temere. Più l’avvocato del giornale, Nino Sorgi, mio padre, che si firmava con lo pseudonimo, ovviamente inventato dal direttore, di «Castrenze Dadò». Un lavoro di squadra come allora non usava, che diede risultati superiori alle aspettative. «La mafia ci minaccia, l’inchiesta continua», sparò Nisticò a caratteri cubitali il giorno dopo l’attentato, chiedendo in prestito al Giornale di Sicilia la rotativa, visto che quella dell’ Ora era stata fatta saltare con l’esplosivo. È la prima stagione della lunga direzione di Nisticò. Che avrà le sue conseguenze nella nascita, rivoluzionaria a quell’epoca, di un governo regionale con la Dc per la prima volta all’opposizione - la famosa «Operazione Milazzo», di cui Nisticò e il giovane dirigente comunista Emanuele Macaluso saranno i registi -, e attirerà sull’ Ora l’attenzione di gran parte dei giornali nazionali e dei grandi intellettuali del tempo, dai torinesi Bobbio, Levi e Galante Garrone, a Moravia, ai siciliani Sciascia e Consolo che presto cominceranno la loro collaborazione. L’epicentro della seconda stagione è rappresentato dal rapimento mafioso di Mauro De Mauro (16 settembre 1970), uno dei tanti misteri siciliani irrisolti, e dall’assassinio dei due giovani corrispondenti Cosimo Cristina e Giovanni Spampinato, caduti sulla stessa frontiera prima ancora di cogliere i frutti del loro lavoro, approdando, dalla provincia, alla redazione centrale. Intanto, la guerra di mafia continuava a scandire la vita di Palermo, L’Ora aveva svelato il ruolo dell’ex sindaco Vito Ciancimino e dei fratelli esattori Nino e Ignazio Salvo e le connessioni tra politici, imprenditori e mafia che solo vent’anni dopo sboccheranno nel maxi-processo, istruito da Giovanni Falcone, e nelle prime condanne all’ergastolo di boss come Riina e Provenzano. Poi cominciò il declino. La vicenda dell’ Ora arrivò stentatamente al 1992. E lì si concluse. La mafia ormai l’avevano scoperta tutti, comprese le tv, e il resto lo fecero le difficoltà in cui si dibattevano i giornali del pomeriggio, l’abbandono intermittente dell’editore politico, il vuoto lasciato da Nisticò, «giubilato» a Roma come condirettore di Paese Sera nel ’75, e solo negli ultimi anni tornato a Palermo come editore della cooperativa che consentì al giornale di vivere i suoi ultimi anni.