MIMMO GANGEMI, La Stampa 17/6/2012, 17 giugno 2012
La mattanza dei pesci spada innamorati - In primavera, quando i pescespada dal mare aperto convergono verso lo Stretto di Messina alla ricerca di un compagno, il maschio si rivela un inguaribile romantico, disposto al sacrificio per amore
La mattanza dei pesci spada innamorati - In primavera, quando i pescespada dal mare aperto convergono verso lo Stretto di Messina alla ricerca di un compagno, il maschio si rivela un inguaribile romantico, disposto al sacrificio per amore. Compete a lui il corteggiamento. Alla femmina, di cedere alle lusinghe di uno tra quelli che si esibiscono per i suoi occhi, persino con salti fuori dall’acqua, innaturali, scomposti, un po’ goffi, e con rientro di spada a trafiggere l’azzurro. La coppia, sposi fedeli di una sola stagione, risalirà il Tirreno, tenendosi a vista della Costa Viola da Villa San Giovanni a Palmi, con il maschio in avanscoperta, pochi metri davanti alla femmina. A bordo della passerella, o feluca – la barca per la pesca – l’arpionatore è sempre in agguato all’estremità del trampolino orizzontale, a una quarantina di metri dalla prua. Riconosce il maschio proprio perché traccia la rotta, e perché è più piccolo, più affusolato. Per lanciare la pesante arma – due arpioni attaccati a un’unica asta metallica lunga quattro metri – attende che il timoniere lo conduca il più a piombo possibile sulla femmina. È la tattica migliore per ucciderli entrambi. Il maschio non saprà infatti rassegnarsi alla perdita della compagna e rimarrà nei paraggi, offrendosi, in una sorta di suicidio, a farsi sciancare le carni dagli stessi arpioni. Non così la femmina, invece cinica, lucida, con il cuore coperto da uno strato di grasso che impedisce ai sentimenti di arrivarci. Lei, se l’arpione è toccato al maschio, una scrollata di spalle e via veloce per la sua strada d’acqua, dove non le mancheranno nuovi amori. «Non tutte però, qualcuna resta» corregge il vecchio pescatore, come pentito d’aver addensato troppo scure quelle ombre. «Talvolta capita che una femmina stia l’intera stagione con due maschi, l’ho visto io, con questi occhi. Eh, le femmine…», inverte di nuovo marcia. «Il maschio, invece… Ne ricordo uno che fu mancato dal lancio dopo che già gli era stata uccisa la compagna e decise lui d’immolarsi, per il dolore andò ad arenarsi sulla spiaggia». Scopro queste storie, che avevo creduto leggende, parlando con gente di mare al porto di Bagnara, nel cuore della Costa Viola. Sopra le nostre chiacchiere campeggia una torre saracena, un monito del passato, di quando le prede erano gli uomini e avvistare i turchi con pochi minuti d’anticipo poteva mutare la morte in vita. Il pescatore racconta senza smettere di preparare il «conso» (il filo con gli ami, ndr): tiene le braccia infilate nella matassa di nylon, ondulandole di qua e di là all’uso delle donne nel comporre i gomitoli di lana. È anziano, usurato dal tempo, ha la faccia arrostita dal sole e solcata da rughe profonde, i movimenti acciaccati e doloranti di chi il mare lo avverte anche dentro, ora umidità nelle ossa. Mentre riafferra i ricordi di giorni migliori, gli si vela lo sguardo, lo disperde lontano, sull’orizzonte confuso con il cielo, lo trascina lento verso riva, colmo di rimpianto. Conduce i miei pensieri a «Il vecchio e il mare» di Hemingway. Lì, il merlin, il fratellastro del pescespada. Non è stato semplice indurlo a parlare. Mi ha guardato sospettoso. Si è un po’ sciolto sentendo la mia parlata, simile alla sua. Poi ha chiesto da dove venissi, chi fossero le mie genti. Rassicurato, s’è concesso. Non s’è trattato d’omertà, di quell’abitudine storpiata che induce a tacere persino su un argomento lecito, innocente. Era piuttosto cautela, riservatezza, il modo di sincerarsi se io meritassi d’essere messo a conoscenza dei suoi segreti, se non avrebbe sprecato parole, saliva, tempo. Gli ridono gli occhi quando racconta degli arpionatori. Ogni generazione ne ha avuti tanti che erano più le volte che colpivano il mare e pochi che sono diventati campioni leggendari – raro fallissero il lancio al grido di «Santa Maria biniditta», avevano una precisione e una grazia nel movimento che l’applauso partiva spontaneo, dallo stesso equipaggio, dagli spettatori sulla terraferma. Scopro che gli avvistatori sono due o tre in vetta al traliccio alto una ventina di metri, e altri sui rialzi della costa, posizionati più su della torre saracena, tra le asperità del monte che le acque partoriscono già impervio e che s’inerpica rapido. Compete a loro localizzare i pescespada, anche intuirne la presenza dai segnali del mare, e indicare la rotta migliore al timoniere. Poi, l’arpione, con una fine rapida, se intacca parti vitali, o con una lenta agonia quando il pescespada ferito trascina con sé nelle profondità centinaia di metri di cima prima di arrendersi alla morte. A metà del secolo scorso, solcavano le acque di Bagnara ventidue passerelle. Ora due sole. E poche altre nei centri vicini. Finita la concorrenza, questi uomini antichi, i sopravvissuti di un mestiere sconfitto dalla modernità, da fatica e pericoli che non mutavano le vite e dalle restrizioni imposte dalle leggi, si sono potuti spartire il mare: un sorteggio nella Capitaneria di porto assegna un tratto di costa a ogni feluca, con titolo di sconfinare solo se la caccia è già iniziata ed è prossimo il lancio a piombo. Fino ai primi decenni del ’900, niente motori e niente passerelle. Si pescava con i «luntri», piccole barche con sei uomini di equipaggio: l’arpionatore, un avvistatore aggrappato a una pertica alta pochi metri e quattro rematori, due per lato, ciascuno con un remo e con muscoli capaci di tenere a lungo uno sforzo violento, per poter stare addosso al pescespada. Questa pesca, tutta fatica e abilità, era considerata un passatempo, uno spasso da uomini e per gli uomini, al punto che Bagnara s’è guadagnata l’immeritata nomea del paese dove a lavorare erano soltanto le donne – in campagna negli impossibili terrazzamenti quasi a picco sul mare, al mercato con il pescato, in giro nei dintorni, vestite di lunghe saie variopinte, a commerciare, vicolo dopo vicolo, zibibbo e lupini portati in grandi ceste di vimini, tenute in perfetto equilibrio sulla testa.