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 2012  giugno 17 Domenica calendario

“La Cia? È vero che ci ha aiutati” - Da un lato, i pendii himalayani, dall’altro le acque infuriate del Bhote Koshi: Kodari, 1600 metri sul livello del mare, quattro ore da Kathmandu su una strada spesso Ddissestata dal panorama magnifico, è un caotico luogo di frontiera fra il Nepal e il Tibet, perso nei fumi neri che escono dai tubi di scappamento dei camion a benzina adulterata

“La Cia? È vero che ci ha aiutati” - Da un lato, i pendii himalayani, dall’altro le acque infuriate del Bhote Koshi: Kodari, 1600 metri sul livello del mare, quattro ore da Kathmandu su una strada spesso Ddissestata dal panorama magnifico, è un caotico luogo di frontiera fra il Nepal e il Tibet, perso nei fumi neri che escono dai tubi di scappamento dei camion a benzina adulterata. Il lato nepalese è percorso da monaci tibetani avvolti nella tunica amaranto, commercianti cinesi in occhiali da sole che si spostano in taxi, newari che camminano piegati sotto carichi enormi, soldati nepalesi in tuta mimetica, trekkers occidentali e turisti indiani, a cui ILARIA MARIA SALA saccompagnai un viavai fitto di personaggi BHOTE KOSHI (NEPAL) improbabili. Spie? Viaggiatori eccentrici? Guru in dialogo con gli spiriti delle montagne? I romanzi di Kipling e i saggi di Peter Hopkirk saltano alla mente, e si respira un profumo di Grande Gioco contemporaneo, eccitante e pericoloso. Oltre il fiume, invece, solcato dal Ponte dell’Amicizia che unisce le due rive, a Zhangmu, l’ordine cinese incombe come un monito severo. Dall’altro lato si può solo scrutare: la Cina ha chiuso il Tibet agli stranieri, dopo l’immolazione di due monaci a Lhasa a fine maggio, e dalla sponda nepalese del Bhote Koshi anche fare fotografie verso l’altra riva è rischioso. I soldati nepalesi, che rispondono al barcollante governo maoista insediatosi a Kathmandu dopo anni di sanguinosa guerra civile, chiudono un occhio davanti alle incursioni di agenti cinesi nel loro territorio, e questi fotografano chi arriva a Kodari e pretendono di controllare e fotocopiare documenti, o anche che vengano cancellate dalle macchine fotografiche e da presa le immagini del Tibet prese da lontano. Sul lato cinese, di fianco a un nuovo muro in costruzione, c’è la bandiera rossa a cinque stelle nazionale, la città di Khasa con edifici squadrati un po’ orwelliani, numerose telecamere e le code di camion che scaricheranno dal lato nepalese prodotti di utilizzo quotidiano – materassi, spaghettini, thermos per l’acqua calda, carta igienica e bacinelle di plastica – prodotti in Cina e utilizzati qui. Malgrado l’inasprirsi dei controlli di frontiera, dal 2008 (anno della ribellione anti-cinese) dai 600 agli 800 tibetani riescono ogni anno a scappare. La maggior parte di loro lo fa arrivando qui a Kodari dopo aver attraversato le montagne, spesso a piedi, accompagnati da guide che fanno la spola. Primo rifugio è il Nepal, ma ormai questa nazione montuosa, sotto spinta cinese ha smesso di garantire lo status di rifugiato che offriva la possibilità di farsi accogliere da un paese terzo. Diki Jigme (non il suo vero nome), una giovane tibetana, racconta che «il governo di Kathmandu, o quello che ne resta al momento, ammette di ricevere forti pressioni da Pechino. I tibetani che abitano qui non hanno più il diritto di manifestare, e quando scendiamo in strada contro la Cina veniamo schedati, picchiati, detenuti, intimiditi. Anche i buddhisti nepalesi fedeli al Dalai Lama sono messi sotto controllo, adesso». In gennaio, un viaggio lampo del premier cinese Wen Jiabao ha offerto più di 100 milioni di euro al Nepal, e firmato diversi accordi, fra cui anche quello di uno scambio di informazioni su chi ha varcato la frontiera illegalmente dal Tibet. Ma del resto le strade, i progetti idroelettrici, gli aiuti allo sviluppo sono già da tempo per lo più cinesi. A tanto aiuto economico si accompagna però la volontà di impedire che il Nepal resti il principale luogo da cui si diffondono le informazioni su quanto accade sull’altipiano. «Pechino sostiene che le politiche cinesi in Tibet sono a vantaggio della popolazione locale, che ne è felice. È falso, ma tutti i canali d’informazione che contraddicono la linea ufficiale sono bloccati», dice Nicholas Bequelin di Human Rights Watch a Hong Kong. Le notizie che si ottengono a Boudha, il quartiere tibetano di Kathmandu dove sorge la sacra stupa di Boudhanath, raccontano di un Tibet dove hanno luogo arresti di massa e scontri armati, di espulsioni forzate di chi è privo di permesso di residenza nella capitale tibetana, e difficoltà di ogni tipo per i tibetani, che qui sono circa 6000. Oggi, intorno a Boudanath, fra l’odore di burro di yak e il mormorio dei fedeli che camminano intorno alla stupa sacra, le conversazioni hanno luogo in sordina, nel timore di essere uditi dalle onnipresenti spie: «Il Nepal ha fatto tantissimo per noi tibetani. Il problema è che l’interferenza cinese è sempre più invadente», dice Tenzin Wangyal (non il suo vero nome): «Il diminuire delle libertà a causa della pressione cinese è un pericolo per l’intera società nepalese, non solo per i tibetani». Phenpo Gyaltzen, di 79 anni, è un mercante di tappeti di successo: conosciuto e stimato da tutta la comunità tibetana in esilio a Kathmandu, è fra quelli che hanno reso il commercio dei tappeti tibetani uno dei capisaldi dell’economia nepalese. Ma la sua storia è fra le più movimentate immaginabili: nato nel 1933 a Phenpo, 40 chilometri da Lhasa, in una famiglia di proprietari terrieri, si ritrovò nel 1961 a Camp Hale in Colorado, selezionato dalla Cia per la guerriglia anti-cinese, che doveva liberare il Tibet dall’occupazione. «Nel 1959, durante la rivolta contro la Cina, cominciammo a sentire spari e colpi di cannone, e si temeva che qualcosa di terribile stesse succedendo al Dalai Lama. Con una trentina d’altri raccogliemmo tutte le pistole, i fucili, le spade che riuscimmo a trovare, e andammo verso Lhasa. Incontrammo gente che stava scappando dalla capitale bombardata, che ci disse che il Dalai Lama era già arrivato in India: eravamo sollevati, ma ormai non potevamo più tornare indietro, l’esercito cinese stava mettendo a fuoco il Tibet». Parla con calma, interrompendosi spesso per fare grandi sorrisi che gli fanno quasi scomparire gli occhi, ma sorprende ad ogni nuova frase. «Arrivammo nell’Assam: molti tibetani lì sono morti, incapaci di resistere allo shock termico. Io mi misi a studiare l’hindi, e venni assunto come interprete nel campo rifugiati, ma avevo anche imparato a fare il meccanico, e un po’ di ferramenta. Forse per tutto questo, tramite un agente mandato da Gyalo Thondup, il fratello del Dalai Lama, venni selezionato per l’addestramento Cia per la guerriglia. Ci fecero un esame medico, e arrivammo in Colorado passando dal Giappone: senza nemmeno un documento in mano!», dice, ancora divertito all’idea. Sulle Montagne Rocciose la vita, almeno climaticamente, era più facile: «Ci volevano forti, e ci facevano mangiare a meraviglia, ma l’addestramento era molto rigoroso», ricorda. Poi, fu assegnato in Nepal: «Sapevo le lingue, e venne deciso che raccogliessi informazioni. Cominciai così a lavorare nei tappeti: avevo un negozio in centro, e parlavo con tutti, in particolare con i commercianti nepalesi che avevano ancora modo di andare in Tibet. Fare l’agente… significa imparare a mentire. Io avrei voluto combattere, perché ero furibondo per quello che stavano facendo i cinesi alla mia gente, ma tutti quelli che conoscevo che sono andati a combattere non sono mai tornati indietro». Che fossero i servizi americani a sponsorizzare la guerriglia, a tutt’oggi, non gli sembra affatto un problema: «Sono grato all’America per quello che ha voluto fare per noi: dovevamo cercare di riprenderci il nostro Tibet, e loro hanno provato ad aiutarci. Di questo, sarò sempre riconoscente». «Rimpianti? No, sono un uomo felice», risponde poi, davanti alla constatazione che malgrado tutto il Tibet sia ancora sotto occupazione: «Noi siamo sei milioni. I cinesi, 1,3 miliardi: ma siamo riusciti a non farci a inghiottire. Lo considero un successo».