PIERANGELO SAPEGNO, La Stampa 17/6/2012, 17 giugno 2012
Il Tar riabilita il carabiniere che rubò 80 euro - Il perdono dev’essere cosa giusta, per noi che siamo un Paese cattolico
Il Tar riabilita il carabiniere che rubò 80 euro - Il perdono dev’essere cosa giusta, per noi che siamo un Paese cattolico. Ma il perdonismo è una specie di malattia. Non si applica sempre e segue regole incomprensibili. Cancella la pena, non la colpa. A suo modo, è una forma di ingiustizia. Adesso ne ha beneficiato un giovane carabiniere di Collegno, che s’era tenuto gli ottanta euro di un portafoglio smarrito da una signora per le vie della città. Era andata così, nell’anno 2006, che un bravo cittadino l’aveva ritrovato e l’aveva portato in caserma. Il militare aveva pensato di restituirlo senza consegnare i soldi. Un’indagine interna l’aveva scoperto e i superiori l’avevano espulso «per condotta biasimevole», con un provvedimento disciplinare che si richiamava pure ai doveri di un buon carabiniere, a quei «principi di moralità e rettitudine che devono improntare l’agire di un militare». Anche il Tribunale l’ha condannato: un anno e 4 mesi per peculato, sia pure con la condizionale e la non menzione. Lui aveva presentato ricorso al Tar. Ieri i giudici amministrativi hanno ordinato di reintegrarlo. Motivo: «Perché appare non ragionevole l’inflizione della massima sanzione, e ciò in considerazione delle molteplici circostanze che avrebbero consigliato una più attenta e motivata ponderazione, che tenesse conto dei suoi precedenti di carriera, tutti pienamente commendevoli, della giovane età e dell’inesperienza al momento dei fatti a lui addebitati (era al suo primo anno di servizio), oltre che della particolare tenuità del rilievo penale...». Cioé: 80 euro sono poca cosa, ed è stato solo un errore di giovinezza. Il perdonismo è questa roba qua, e se anche l’Arma, l’ultimo baluardo della rettitudine e della severità, è costretta ad accettarlo, dobbiamo rassegnarci. Appartiene a tutti gli effetti alla nostra società. Poi succede come a Malpensa, quando le telecanere del circuito interno hanno ripreso dei dipendenti della Sea che rubavano tranquillamente dalle valigie, scegliendo persino le cose buone e quelle brutte, che buttavano senza vergogna di là dalla rete: l’indagine del 1997 aveva coinvolto 34 lavoratori accusati di associazione a delinquere, furto aggravato e ricettazione, riammessi al loro posto, magari come F.D.A., reintegrato dal giudice in base al principio secondo cui «la Sea non ha indicato gli oggetti del furto contestato e le eventuali denunce dei passeggeri». Così i furti ripresero e continuarono allegramente, di nuovo scoperti da una telecamera 5 anni dopo, come se niente fosse successo. Al perdonismo basta la forma. Una norma del 1995 stabilisce che in caso di sentenza penale di assoluzione il lavoratore ha diritto a essere reintegrato. Giusto. Ma si dà il caso che anche un lavoratore colto in flagrante e poi assolto per qualsiasi motivo puramente formale o per prescrizione del reato, cioé per mera insufficienza del sistema giudiziario, possa venire riassunto. Il 21 dicembre del 2000 un cassiere di banca fu licenziato per essersi concesso un prestito, attingendo dalla cassa e dimenticando di restituirlo: fu reintegrato dal giudice «in considerazione della depressione fisica di cui sarebbe stato oggetto» (Tribunale di Milano). Un altro lavoratore fu licenziato per truffa ai danni della sua azienda, eppure dovettero reintegrarlo «in considerazione della complessità delle indagini per accertare il reato». Ci vuole tempo per scoprire se è in colpa, quindi tenetelo. Si badi bene, da un punto di vista garantista, può sembrare assurdo, ma è giusto. Solo che a distanza di anni, il giudice diede atto che il reato era stato commesso, confermandogli però il posto perché «nel frattempo l’imputato si è comportato in modo ineccepibile dando così prova di ravvedimento» (Tribunale di Messina, 15 luglio 1999). Alla fine il perdonismo nei suoi percorsi imperscrutabili sembra fare figli e figliastri. Se ci sono magistrati costretti a rinunciare a delle indagini e al loro lavoro, come accade nei film americani, solo perché dall’alto cadono divieti e steccati, un gip di Vicenza, la dottoressa C. C., si prendeva lunghissimi congedi per malattia con certificati medici che accertavano una «lombartrosi spiccata», salvo poi andarsene tranquillamente a spasso in giro per il mondo con la barca a vela, a bordo del suo 60 piedi «Mer Verticale», dall’Isola di Wight a Dunkerque, e partecipando pure alla Rolex Fastnet Race, in attesa di passare l’Oceano dalla Francia al Brasile. Ammonimenti, articoli, sanzioni. E alla fine la Corte dei Conti l’ha condannata per colpa grave, a pagare 6728 euro da rimborsare alla collettività. All’incirca, un mese di lavoro. Ma nella società del perdonismo, forse è proprio il lavoro l’unica colpa. Se a Bergamo, un operaio si picchia in fabbrica e viene licenziato dall’azienda, il giudice lo reintegra perché «le sanzioni devono essere proporzionate alla gravità dell’infrazione».Solo che la gravità è un’altra variabile impazzita, come il perdonismo. A Torino, un altro operaio che si era messo in malattia, se n’era andato la sera dell’8 settembre 2010 a contestare il segretario della Cisl Raffaele Bonanni davanti a tutte le telecamere della tv e agli occhi del suo padrone, che l’aveva così licenziato, «essendo venuto meno il rapporto di fiducia tra le parti». Lui se n’era uscito di casa dopo la visita fiscale. Ma non c’era colpa, ha deciso il giudice: è che la sua patologia gli impediva solo «il compimento di sforzi ripetuti durante otto ore di lavoro». Il resto poteva farlo tranquillamente. Beh, almeno non chiedeteci di capire.