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 2012  giugno 17 Domenica calendario

Lo «sviluppo sostenibile»? È solo odio per il mercato - Si scrive «sviluppo sosteni­bile », si legge umiliazio­ne del mondo capitali­sta, anzi del genere uma­no

Lo «sviluppo sostenibile»? È solo odio per il mercato - Si scrive «sviluppo sosteni­bile », si legge umiliazio­ne del mondo capitali­sta, anzi del genere uma­no. Perché è questo il vero obietti­vo di chi ha partorito questo con­cetto, diventato il fulcro di ogni po­litica globale e locale giusto venti anni fa, con la Conferenza interna­zionale sull’ambiente svoltasi a Rio de Janeiro nel giugno 1992. La settimana prossima, dal 20 al 22, ancora a Rio si ritroveranno i capi di Stato e di governo di tutto il mon­do per aggiornare quel Piano di azione ventennale che arriva oggi a scadenza, ma nessuno sembra intenzionato a fare un bilancio se­rio di cosa l’adozione del concetto di «sviluppo sostenibile» abbia si­gnificato in questi venti anni. Nell’immaginario collettivo si è riusciti a far passare l’idea positi­va che­sviluppo sostenibile signifi­chi uno sviluppo che rispetti l’am­biente, ma già questo implica che lo sviluppo sia di per sé un’attività distruttiva. Anche la definizione ufficiale di sviluppo sostenibile è falsamente accattivante: «Lo svi­luppo che incontri i bisogni del presente, senza compromettere le possibilità per le future genera­zioni di incontrare i loro bisogni», si legge nel Rapporto della Com­missione Internazionale su Svi­luppo e Ambiente, più nota come Commissione Brundtland. Era il 1987, la definizione suonava bene ma in realtà nascondeva un signi­ficato inquietante. «Nascondeva» si fa per dire, perché basta leggere il Rapporto ( Our common future , Il nostro futuro comune)per capi­re che dietro c’è una singolare con­cezione della specie umana, con­siderata nociva. La grande novità fu in effetti l’aver indicato la cresci­ta della popolazione quale respon­sabile del sottosviluppo e del de­grado dell’ambiente. L’assunto su cui si fon­da­tale concetto è smen­tito dalla realtà: non c’è alcuna relazione tra densità della popola­zione e sviluppo, se è ve­ro che tra i 21 Paesi più poveri del mondo solo 7 hanno una densità su­periore ai 100 abitanti per kmq e tra i 21 più ric­chi sono ben 12 a supe­rare questa cifra. Anzi, se una relazione c’è, la spiegano i Paesi industrializzati che hanno visto calare i tassi di fer­tilità a seguito dello sviluppo. E lo stesso vale per l’ambiente: i pro­blemi più gravi - deforestazione, inquinamento, sfruttamento sel­vaggio delle risorse - si riscontra­no nei Paesi più poveri e spesso in aree a bassa densità di popolazio­ne. Eppure a partire dal Rapporto della Commissione Brundtland, all’Onu il concetto di sviluppo so­stenibile è diventato una parola d’ordine trasformatasi nella con­vocazione di una Conferenza in­ternazionale su ambiente e svilup­po a Rio de Janeiro nel 1992, come peraltro il Rapporto chiedeva. Non stupisca il successo: grande regista sia della Commissione Brundtland sia della Conferenza di Rio è stato il canadese Maurice Strong (allora direttore del Pro­gramma Onu per l’am­biente, Unep), un uo­mo d’affari diventato potentissimo grazie al­l’industria petrolifera e che ha usato questo potere per indirizzare su scala internaziona­le, e sotto l’egida del­l’Onu, il movimento ecologista. Nel 1976, in un’intervista a una rivi­sta canadese, Strong si definì «un socialista per ideologia e un capi­talista per metodo», e in un’altra ebbe a dire che«potremmo arriva­re al punto che l’unico modo di sal­vare il mondo sarà il collasso della civiltà industriale». È questa la strada intrapresa con l’Agenda 21, il programma approvato dai capi di governo di tutto il mondo a Rio venti anni fa, il cui fondamen­to è appunto nel «limitare» la pre­senza umana: quantitativamente - con la moltiplicazione dei pro­grammi di controllo delle nascite per i Paesi in via di sviluppo- e qua­litativamente- con tentativi di fre­nare la crescita economica dei Pa­esi industrializzati. Da qui nasce anche l’isteria sui cambiamenti climatici che ha por­tato al Protocollo di Kyoto e alle conseguenti politiche energeti­che che stanno penalizzando l’Eu­ropa. Basti pensare che la Germa­nia, maggior consumatore pro ca­pite di energia solare, ha investito in questi anni 130 miliardi di dolla­ri in s­ovvenzioni per tale fonte rin­novabile ricavando in energia un valore pari a 12 miliardi. Nessuna sorpresa che in dieci anni il costo dell’energia per l’industria tede­sca sia aumentato del 57%, e che la locomotiva dell’Europa sia diven­tata dipendente dalla Russia. Oggi la nuova Conferenza sul­l’ambiente promette di portare a termine l’opera promuovendo la nuova parola d’ordine dei prossi­mi anni: economia verde, green economy . Investimenti folli per ri­sultati minimi: nel 2009 una ricer­ca svolta dall’università Rey Juan Carlos di Madrid aveva dimostra­to che in Spagna ( spesso citata dal presidente americano Obama co­me modello di green economy ) per ogni «posto di lavoro verde» creato tra il 2000 e il 2008 se ne era­no distrutti 2,2 negli altri settori. Green economy è anche la parola magica per combattere il riscalda­mento globale, considerato la fon­te di lutti e povertà, soprattutto nel Terzo mondo. Ma anche pren­de­ndo per vere tutte le fosche pre­visioni sulle morti per alluvioni, siccità, ondate di caldo, si scopre che nei Paesi poveri le morti da ri­sca­ldamento globale arriverebbe­ro allo 0,06%: al confronto le morti da acqua non potabile e inquina­mento già contano per il 13% del totale. Come ha detto Bjorn Lomborg, l’«ambientalista scettico»che gui­da la ricerca di un team di scienzia­ti su progetti per ambiente e svi­luppo, «concentrandosi sulle mi­sure per prevenire il riscaldamen­to globale, i Paesi avanzati posso­no aiutare a prevenire la morte di molte persone. Il che suona bene finché non ci si rende conto che la conseguenza è la morte evitabile nei Paesi poveri di un numero di persone 210 volte più alto, poiché le risorse che potevano salvarle so­no state spese in pale eoliche, pan­nelli solari, bio-carburanti e altre fissazioni dei Paesi ricchi».