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 2012  giugno 17 Domenica calendario

«Io, dalla padella alla brace per colpa del gatto arrosto» - Per entrare nell’antro dell’orco si scendono tre gradini

«Io, dalla padella alla brace per colpa del gatto arrosto» - Per entrare nell’antro dell’orco si scendono tre gradini. Fuori piove a dirotto, la temperatura è au­tunnale, ma alle 10 del mattino il fuoco nel camino è ancora spento e in cucina non vedo traccia di porcospini al sugo, storni in salmì, ghiri arrosto e scoiattoli in umido. Sul tavolo c’è solo un canovaccio bianco coperto di piselli appena sbuccia­ti: «Dell’orto nostro. Ovvia, oggi li si fa al­l’olio, come contorno, al massimo con un par di fette di presciutto». Accanto ci sa­rebbe anche Il Galletto , per il momento non ancora ai ferri, trattandosi del setti­manale del Mugello e della Valdisieve. Su una sedia sonnecchia Codina bianca, una delle due micie-l’altra è Foffina-che allietano le sue giornate. È arrivato a te­nerne fino a otto, contemporaneamente, di gatte, «e tutte hanno potuto avere alme­no due gravidanze, perché mi dispiaceva farle sterilizzare». A scanso d’equivoci: Miula, Sophy, Drillina, Bianca, Lippi e le numerose compagne riposano in pace nel giardino trasformato in cimitero. Povero Tebaldo Lorini, trasformato a mezzo stampa in mostro preventivo e co­stretto da quasi quattro mesi a sopporta­re lo stalking degli animalisti più scriteria­ti. L’unica sua colpa,se di colpa si può par­lare, è quella d’aver dato alle stampe, con devota monomaniacalità, una dozzina di libretti frutto di un amore viscerale, anzi gastrico, per la sua terra: La fiorentina in Mugello , Il tartufo in Mugello , Funghi in Mugello dal bosco alla tavola , Il vero tortel­lo mugellano , Marroni e castagne tesori dal Mugello , Mugello dalla caccia alla ta­vola , e via mugellando. Dopodiché, esau­rito tutto l’esauribile, ha pensato bene di pubblicare, per i tipi delle Edizioni Poli­stampa di Firenze, Ricette proibite , sottoti­tolo Rane, asini, rondinotti, gatti e tartaru­ghe nella tradizione alimentare , «un libro originale e destinato a far discutere», se­condo il profetico claim dell’editore. Infatti. Della ghiotta anticipazione s’è impossessata l’agenzia di stampa Il Veli­no il 23 febbraio. Il 24 l’ha ripresa l’Ansa. L’indomani il reprobo è stato spellato vi­vo sulle pagine del Giornale da Oscar Gra­zioli, veterinario e scrittore. La notte del 26 i militanti del movimen­to-Centopercentoanimali­sti hanno preso d’assalto l’Editoriale di Bologna, la Distribook di Milano e la Cierrevecchi di Limena, che distribuiscono il libro sul territorio nazionale. E decine di anonimi, profit­tando del fatto che l’incau­to autore è sull’elenco del­la Telecom, hanno comin­cia­to a tempestare di telefo­nate irriferibili l’abitazio­ne di Lorini a Borgo San Lo­renzo. «Soprattutto donne, cattivissi­me », sospira. «Me ne hanno dette di tutti i colori: delinquente, mascalzone, assassi­no, carogna,infame...Non c’è stato verso di farle ragionare. Le più gentili mi hanno augurato la stessa morte riservata agli ani­mali nelle antiche ricette da me raccolte. Le capisco. Magari sono signore che vivo­no da sole e hanno come unica compa­gnia il loro gatto. Ma la cosa che più mi ha impressionato è che tutti, agenzie di stam­pa, giornalisti, animalisti, lettori, mi han­no crocifisso prim’ancora di avere fra le mani il libro, visto che è uscito soltanto il 1˚ marzo». Adispettodelnomedibattesi­mo scespiriano, che lo vorrebbe incline al­la rissa sino a farsi uccidere da Romeo, il mite Lorini non intende rinfocolare le po­lemiche: «Comprendo le reazioni, per quanto esagerate e ingiustificate. Va’ a spiegarlo, agli amici degli animali, che la mia voleva essere solo un’operazione cul­turale. Se permettono, sono un amico de­gli animali anch’io». Lorini, geometra oggi in pensione, è na­to nel 1943 ed è sposato dal 1970 con Mara Cipriani, dalla quale ha avuto due figli: Lu­ca, 41 anni, fisico specializzato in laser che nei laboratori del National institute of standards and technology di Boulder, in Colorado, ha costruito l’orologio atomi­co più preciso del mondo («perde un se­condo ogni 400 milioni di anni») e ora la­vora all’Inrim, l’Istituto nazionale di ricer­ca metrologica di Torino da cui proviene il segnale orario della Rai, e Silvia, 35 anni, medico.La moglie è un’abilissima cuoca. «Ci si sveglia la mattina e ci si chiede: che facciamo oggi da mangia­re? Una cosa che non ci pia­ce, ’un la si fa». Colesterolo (270) e trigliceridi (320) del­lo scrittore sono commisu­rati all’impegno mattutino per la buona tavola. «Man­gio di tutto, compresi su­ghi, fritti e dolci, però mai a sazietà. Mi alzo da tavola con la fame. Il fatto è che re­sto sempre 100 chili». La persecuzione ponderale è da ascriversi a uno scontro frontale in auto il 20 dicem­bre 2008: «Tre mesi in coma, più altri 9 d’ospedale, con un’emorragia cerebrale e tre arresti cardiaci, uno della durata di 5 minuti, i medici si meravigliano che il cer­vello mi funzioni ancora. Ho subìto 12 in­terventi chirurgici. Mi hanno asportato la milza e la cistifellea. Ho le gambe riempi­te di chiodi e viti, fatico a camminare ed è il motivo per cui ingrasso anche senza mangiare. Quindi, tanto vale mangiare». È sempre stato una buona forchetta? «Tutt’altro. Ero un inappetente cronico. Da ragazzo detestavo persino la pasta­sciutta. La carne mi faceva senso». Come le è saltato in mente di scrivere Ricette proibite ? «Ricordando i racconti di mia madre che viveva negli stenti. Mio nonno Agostino, ormai molto anziano e inabile al lavoro, prendeva il pane con la tessera annona­ria e consegnava a lei la sua razione, dicen­dole: “Bambina, ’un ho fame, mangialo te”.In realtà se lo toglieva di bocca.Ho co­minc­iato più di 30 anni a raccogliere le an­tiche ricette dagli anziani contadini, affin­ché non andassero perdute. Le ho pubbli­cate tutte. Mi restavano nel cassetto quel­le politicamente scorrette». Poteva lasciarcele. «A dire il vero avevo deciso di smettere con la cucina. Ne parlano tutti, in televi­sione, sui giornali, ’un se ne pole più! Ma quando l’editore Mauro Pagliai le ha vi­ste, era entusiasta e m’è toccato dirgli: va bene, lo fo. È un libro storico». Mica tanto. Se lei riporta la ricetta del gatto in «civet», tagliato a pezzi e mes­so a marinare con vino rosso, sale, pe­pe, bacche di ginepro, chiodi di garofa­no, cannella, aglio, cipolla, carota a fet­te, sedano a rondelle e un mazzetto di alloro e timo, è quasi un’istigazione a delinquere, perché insegna come si fa. «Non lo mangerei mai, nemmeno morto! Parlo di me, non del gatto. Si figuri. Qui in Toscana è molto ricercato l’istrice, per le carni prelibatissime. Si fa arrosto o a spez­zatino. Nelle trattorie di Scansano, Orbe­tello, Montemerano e Saturnia lo usava­no come condimento sulle pappardelle. Un amico me l’ha portato,l’aveva investi­to con l’auto per sbaglio. ’Un s’è mangia­to. L’ho tenuto in freezer due mesi e poi l’ho regalato.Ma conosco un medico di fa­miglia, ormai novantenne, che voleva a tutti i costi portarmi a mangiare il gatto in un ristorante di Vicenza». Non c’è andato, mi auguro. «Certo che no. Ma perché avrei dovuto censurare la terribile spiegazione che la medesima persona mi ha dato del prover­bio “Non dire gatto se non è nel sacco”? Una frase di cui ignoravo il significato, na­ta dalla fame umana. Il gatto diventa giu­stamente feroce quando è in pericolo, per cui lo si uccideva mettendolo in un sacco e sbattendolo contro il muro per evi­tare i suoi graffi e i suoi morsi». Lei farà la fine di Beppe Bigazzi, caccia­to dalla Rai perché alla Prova del cuo­co ha raccontato che in Valdarno «uno dei grandi piatti era il gatto in umido». «Lo conosco Bigazzi, è di Terranuova Bracciolini. Doveva venire a presentare il mio libro,ma non se l’è sentita.Compren­sibile: io non ho perso nulla, lui ha perso tutto, gli hanno stroncato la carriera». Edoardo Raspelli mi ha confessato d’aver assaggiato la marmotta, ma nessuno l’ha cacciato da Melaverde . Che il simpatico animaletto del club di Topolino sia più scemo del gatto? «La marmotta è selvatica. Nel gatto c’è di mezzo il sentimento, come nel cane, che però in Cina, in Corea e nelle Filippine vie­ne messo ai ferri. Sto male solo a dirlo. Mi torna in mente Serafino, un trovatello che mi ha tenuto compagnia per 15 anni». Insisto: ma a che cosa serve un ricetta­rio, visto che a nessuno verrebbe in mente di cucinarsi il micio di casa? «E a che serve riportare in Wikipedia la formula della bomba atomica in grado di distruggere l’umanità? Io non sono spinto a fare le co­se che leggo e presumo che gli altri siano come me». Allora avrebbe dovuto ricevere lettere e telefo­nate di complimenti, an­ziché di riprovazione. «Ma ho ricevuto anche quel­le. Tantissimi hanno capito che la mia è solo una contro­storia. E che fai? Te la pren­di con la storia? Per chi aveva fame, il gatto era una preda facile. E un nemico, perché s’introduceva nelle cucine e rubava il ci­bo. L’uomo che mi aiuta a tenere in ordine il giardino viene dal monte Amiata e mi ha raccontato che negli anni Cinquanta le fa­miglie la domenica condivano le tagliatel­le col ragù di gatto al posto del sugo di le­pre. Lì è ancora diffusa l’usanza di mangia­re i gatti selvatici, che vivono numerosi nel­le foreste e disturbano i cacciatori facendo strage delle covate dei fagiani. Nel Trecen­to in Toscana si dava da mangiare agli igna­ri ospiti il gatto al posto del coniglio, come racconta il novelliere Franco Sacchetti. Così fece il pievano della Tosa con messer Dolcibene, il quale contraccambiò facen­dogli mangiare dei topi». Non solo in Toscana e non solo nel Tre­cento. Della sua infanzia di miseria a Mortara, nel Pavese, la contessa Mar­ta Marzotto mi ha raccontato: «La mia frustrazione più grande fu quando m’impedirono di mangiare un topo cucinato per mio fratello. A mia ma­dre avevano raccontato che quello era l’unico modo per curare l’enuresi notturna di Arnaldo. Ma io non facevo la pipì a letto, quindi niente sorcio». «Si calcola che nel 1870,durante l’assedio prussiano alla Comune, i parigini abbia­no mangiato 25 milioni di topi, oltre che tutti gli animali rinchiusi nella Ménage­rie du Jardin des Plantes, lo zoo». Ma lei ha mai assaggiato qualche ricet­ta proibita? Su, confessi. «Mi ripugnano persino le lumache. In Co­sta Rica volevano farmi mangiare “elpol­lo de palo”. L’ho rifiutato». Non dev’esserequello Aia,immagino. «È l’iguana.Lo chiamano così perché vive sui tronchi degli alberi. Ero in un hotel di Playa Hermosa, di proprietà di Enrico Vi­sani, un amico pittore di Bologna. Il quale da anni insisteva invano col suo chef per­ché gli facesse un ragù di coniglio». Non si mangia il coniglio in Costa Rica? «No,e neppure negli Stati Uniti.È conside­rato animale da compagnia, alla stregua di cane e gatto. Poi un giorno ha scoperto perché il cuoco non si decideva a farglie­lo: temeva che il proprietario dell’alber­go, dopo averlo mangiato, assumesse il comportamento sessuale del roditore. Pongo un interrogativo ai benpensanti. Alcuni animali hanno avuto la triste sorte d’essere prescelti per nutrire la razza uma­na e vengono abbattuti in milioni di esem­plari. Forse che possiamo interessarci al caso individuale e non alla specie?». Solo ai tempi del Ruzante si metteva in teglia tutto ciò che respirava. «Mi fa venire in mente che a Padova, la cit­tà di Angelo Beolco, conosco un tecnico di diluenti per tipografia, appassionato di distillati, che si fa la grappa alla vipera». Si produceva anche sull’altopiano di Enego, nel Vicentino. Conservo la fo­to di un salumiere di Verona che la vendeva: si vede la bottiglia col serpen­te velenoso, ovviamente morto, che galleggia nell’acquavite. «L’opinione dei cinesi resta quella ruzan­tiana: si può mangiare tutto quello che è vi­vo e si muove sulla faccia della Terra. Dal punto di vista etico è peggio uccidere un gatto o un animale in via d’estinzione?». Quesito respinto. Questa è un’aporia. Vince la mozione degli affetti. «Eppure di gatti se ne vedono in giro tanti, dobbiamo persino fare i conti col fenome­no del randagismo, mentre di rondoni ne sopravvivono pochissimi. In cima alle leo­poldine, le case coloniche costruite dopo le bonifiche in Valdarno, Maremma e Val­dichiana durante il Granducato di Leopol­do, c’erano delle torrette con una serie di fori circolari, che servivano da nido ai ron­doni. Una forma d’alleva­mento: d’estate i contadini catturavano i piccoli prima che imparassero a volare e li mettevano arrosto. Era un pranzo da gran signori». Il suo «arrosto morto», fatto con i piccoli di vol­pe appena partoriti, è da trattato di criminologia. «Arrosto morto perché si fa in teglia, non sul fuoco vi­vo. Anche qui c’entra la fa­me atavica. Quando la vol­pe faceva strage nel polla­io, era una tragedia. Il pollo infatti era l’unica risorsa dei mezzadri: a differenza del maiale, non bisognava dividerlo col padrone, quindi si poteva vendere al mer­cato e ricavarne qualche soldo con cui comprare la dote per la figlia da maritare. Il cacciatore sterminava i volpacchiotti, poi faceva il giro delle fattorie e le donne lo ricompensavano regalandogli uova». Che cosa rende l’uomo superiore agli animali? «Superiore non è. Semmai uguale. Anche gli animali, esclusi gli erbivori, mangiano gli animali.L’omo è nato onnivoro,che ci vole fa’?».