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 2012  giugno 16 Sabato calendario

La mano che battezzò Gesù prende a schiaffi gli scettici - Nel 2010, sull’isola bulgara di Sveti Ivan (San Giovan­ni), un gruppo di archeo­logi trovò, sotto una chiesa, un pic­colo scrigno o teca di marmo con­tenente, oltre ad alcuni resti ani­mali, un dente, la parte anteriore di un cranio e la falange di una ma­no: tutti e tre umani

La mano che battezzò Gesù prende a schiaffi gli scettici - Nel 2010, sull’isola bulgara di Sveti Ivan (San Giovan­ni), un gruppo di archeo­logi trovò, sotto una chiesa, un pic­colo scrigno o teca di marmo con­tenente, oltre ad alcuni resti ani­mali, un dente, la parte anteriore di un cranio e la falange di una ma­no: tutti e tre umani. Si trattava con evidenza di un reliquiario. I resti vennero datati da princi­pio intorno al III, IV secolo. Ma un recente studio effettuato sulla fa­lange e basato sul carbonio 14 ha imposto la re­trodatazione, che finisce per far coincidere l’età di quelle ossa con l’epo­ca in cui visse Gesù. Se, poi, teniamo pre­sente: 1) che le ossa sono di provenienza mediorientale, come dimostra uno studio sul Dna effettuato presso l’univer­sità di Copena­ghen, 2) che l’isola bulgara dove è stato ef­fe­ttuato il ritro­vamento pren­de il nome da Giovanni Batti­sta e 3) che lo scrigno provie­ne­dalla Cappa­docia, e preci­samente da An­tiochia (dov’ era attestata la presenza di una reliquia del Battista - la mano destra ­fino al X seco­lo): bene, ci sa­rebbe da dedur­re che la falan­ge ritrovata, da­tata e ridatata potrebbe essere ad­dirittura quella del cugino di Ge­sù. Sono prove indiziarie, va da sé: le stesse, tuttavia, con le quali ha a che fare, per la stragrande maggio­ranza del proprio difficile cammi­no, quella disciplina meraviglio­sa che è la ricerca storica. Ma il me­todo scientifico c’impone estre­ma prudenza: anche se tutti i se­gnali sembrano orientati in una certa direzione, il beneficio del dubbio è d’obbligo, poiché nulla vieta che, nel corso della ricerca nuovi elementi emergano a muta­re la direzione di quei segnali. Wittgenstein diceva che in ogni seria indagine «l’incertezza scen­de giù, fino alle radici», e che pro­prio perciò «bisogna essere sem­pre pronti a imparare qualcosa di completamente nuovo». La dire­zione delle ipotesi non può in al­cun modo costituire un precon­cetto nel momento in cui nuove scoperte imponessero un ripensa­mento. É bene però distinguere sem­pre la prudenza dallo scetticismo, l’incertezza metodica da quella si­stematica. Io per esempio non nascondo la mia allegria non appena letta questa notizia, riportata dal Ti­mes. Io non so se questa benedet­ta falange appartenga veramente a Giovanni il Battista, ed è probabi­le che per molto tempo nessuno lo saprà con certezza. Esistono però altre certezze, che questa storia può confortare. Per esempio, la mala pianta scettica, che è in tutti noi, e che non è meno irrazionale del fidei­smo, ci spinge- lo dico anche a tito­lo personale - a pensare che tutto ciò che ci giunge dal racconto po­polare, specie quando questo rac­conto sia legato alla fede, sia falso in quanto frutto d’invenzione. I grandi etnografi a partire dal primo Novecento hanno studiato la forma mentale dei popoli anti­chi, mostrando come le loro cre­denze e le loro pratiche magiche determinassero anche il loro mo­do di guardare la realtà che aveva­no davanti, popolandola di pre­senze magiche, angeli nell’acqua­io, diavoli nel caminetto e così via. Era l’eredità positivista, che non ci ha mai più lasciato e ci fa persuasi che solo adesso l’uomo ha raggiunto piena consapevolez­za di sé e del suo posto nel mondo, mentre in età passata la mente umana era ingolfata da troppe cr­e­denze che la rendevano ingenua e fallace, sempre pronta a dare cor­po alle ombre. Ci fa persuasi che i nostri antenati, specie se dotati di fede religiosa, fossero struttural­mente incapaci di attestare i fatti. Bene, questa storia delle reli­quie forse- forse- di Giovanni ci di­ce il contrario. Ci dice innanzitut­to che il culto delle reliquie nasce­va non da pratiche necrofile ma dal bisogno di testimoniare un fat­to reale. E poi ci dice che i racconti giunti fino a noi, per quanto man­canti o mal fatti, non nascono qua­si mai da una volontà di mentire (propria forse più della nostra evo­luta classe giornalistica) ma, al contrario, dalla necessità di regi­strare il vero. L’uomo storico, insomma (ivi incluso l’uomo di fede), è migliore di come lo dipinge il positivismo. Questa è la bella notizia. Possia­mo dunque tornare a scavare, dis­seppellire, spolverare, classifica­re e me­ttere i nostri reperti alla pro­va del Dna e del carbonio 14 senza il timore di sentirci imbecilli solo perché i dati scientifici sembrano (e sottolineo sembrano) confer­mare anziché negare quello che la fede degli uomini ci ha tramanda­to.