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 2012  giugno 16 Sabato calendario

Il partito «Repubblica»? Io lo conosco bene - Quando mi è stato chie­sto di scrivere sulla fe­sta di Repubblica aBo­logna, Qsono stato attra­versato da sentimenti diversi e memorie antiche

Il partito «Repubblica»? Io lo conosco bene - Quando mi è stato chie­sto di scrivere sulla fe­sta di Repubblica aBo­logna, Qsono stato attra­versato da sentimenti diversi e memorie antiche. Un tempo io ero lì.Con loro.Non c’era anco­ra Ezio Mauro, ma c’era Scalfa­ri e una generazione di giornali­sti grandi e meno grandi usciti di scena. Oggi la Repubblica èfi­glia di quella antica, ma ne por­ta intatto il genoma. Io non ci sono più dal 1990 (quando an­dai alla Stampa diretta da Pao­lo Mieli con Ezio Mauro come condirettore e poi direttore unico quando Paolo andò a di­ri­gere il Corriere della Sera ) per­ché in me avvenne una rottura dolorosa e nonrimediabile. Quel giornale che era nato come un vascello cor­saro su cui avrebbero dovuto sali­re tutti i dissidenti e gli irregolari di sinistra in un momento oggi così lontano (trentasei anni fa, prima che Craxi diventasse segretario del Psi e quando Aldo Moro era vi­vo e al governo) si trasformò quasi brutalmente in un’altra cosa volu­ta da Eugenio Scalfari, creatore di Repubblica e personalità multipla ed eccezionale allo stesso tempo. Scalfari voleva il trionfo finale del­la borghesia, ma mettendo in sala macchine il Partito comunista che avrebbe dovuto essere sdoganato in Italia e all’estero e che avrebbe dovuto uscire dal «guado» in cui si trovava e dove restò fino alla fine: non più del tutto di là, ma irrime­diabilmente non di qua. Quando me ne andai erano appena cadute alcune muraglie berlinesi (non tut­te) e il Pci cercava dei baffi e nasi finti per cambiare identità fuori tempo massimo. E a proposito di massimo, fu poi Cossiga a portare Massimo D’Ale­ma a Palazzo con l’entusiasmo di Bill Clinton cui servivano le nostre basi per bombardare la Serbia sen­za­avere piazze di sinistra in subbu­glio. Esaurita quella fase, la Repub­blica che era stata l’ammiraglia della guerra contro Bettino Craxi­la ruggine anche personale fra Scalfari e Craxi datava dai tempi in cui Eugenio fu paracadutato nelle liste del Psi a Milano da Giacomo Mancini per metterlo al riparo da un possibile arresto per i processi seguiti alla denuncia del presunto golpe de Lorenzo (1964) rompen­do le uova nel paniere di Craxi che lo accusava di essersi messo con i socialisti suoi nemici. Poi Scalfari decise di ripresentarsi alle elezio­ni del 1-973 dove fu sconfitto per po­chi voti a causa di un articolo usci­to sul Corriere e sponsorizzato da Craxi in cui si raccontava come Scalfari avesse detto più o meno «lei non sa chi sono io» a un vigile milanese. Ne nacque fra i due un odio reciproco e profondo di cui sono stato testimone anche per­ché potevo raccogliere le loro ver­sioni senza intermediari. Al­l’ Espresso i vecchi sodali lo scorag­giarono a rientrare e Scalfari ebbe il colpo di genio di inventare un giornale tutto nuovo, diverso in ogni dettaglio, dal formato alla col­locazione della cultura nel centro e non in terza pagina, io ero là dal primo giorno e per quindici anni durante i quali il primo tabloid ita­liano diventò il primo quotidiano italiano, sfondò il milione di copie di venduto e sorpassò il Corriere or­mai in ginocchio per lo scandalo della loggia P2. Scalfari fece un giornale che non fiancheggiava il partito comu­nista, ma pretendeva di guidarlo a tutti i costi come il testardo boy scout che costringe con la forza la riluttante vecchina ad attraversa­re la strada. Il Pci di Berlinguer un po’ resisteva e un po’ ci stava e nel corso degli anni Repubblica diven­tò un oggetto nuovo e strano, diver­so dagli altri giornali, che poi è così rimasto: diverso da ogni altro gior­nale. Ed è oggi quell’oggetto nuo­vo e strano che celebra se stesso con grande effetto scenico a Bolo­gna. La diversità oggi viene tratta­ta con sarcasmo da quelli di Repub­blica a cominciare da Ezio Mauro quando respinge l’accusa di voler formare o fondare o simulare un partito. Si tratta di una questione noiosa perché stantia dopo tanti anni e che si può descrivere così: Repubblica è certamente un gior­nale, un grande giornale e di eccel­lente fattura oltre che di sover­chiante abbondanza di pagine, fir­me, adepti e fan. Ma poi, ed questo il punto, non è soltanto un giorna­le ma anche (non invece) qual­cos’altro: c’è chi l’ha chiamata house organ o news letter , c’è chi la chiama partito e chi lobby. Le paro­le sono tutte sinonimi e non ha im­portanza quale si sceglie. Il punto è che Repubblica non è soltanto un raffinato osservatore come pos­sono essere altri grandi quotidiani liberal come il New York Times , o El País o le Monde i quali osserva­no e descrivono il campo da gioco ma non scendono a prendere a cal­ci la palla. Repubblica ha sempre preso a calci la palla.Ha potuto far­lo perché­si è guadagnata sul terre­no l’autorevolezza e il potere di ve­to: ai tempi miei erano Scalfari e i suoi più stretti sodali (persino io per qualche tempo) a determina­re le mode, quale libro leggere, quale film vedere, dove fosse chic e cool andare a fare le vacanze, co­me vestirsi, come parlare, come at­teggiarsi. E fin qui va bene. Ma poi Repubblica smistava la politica, determinava le posizioni e Scalfari agiva di fatto- ed è un tito­lo anche di merito benché anoma­lo- come un presidente del Consi­glio ombra, come un tessitore di al­leanze politiche, come un promo­tore di leader, anche se eterna­mente sfortunato perché ne aves­se azzeccato uno, da Antonio Gio­litti alla guida del Psi a Ciriaco de Mita alla guida del governo, tutti fi­niti male. Con Ezio Mauro il gioco è stato molto più semplice: c’era da fare la guerra a Berlusconi e lui l’ha fat­ta senza risparmio e ancora la fa. Oggi assistiamo a questa astuta e grandiosa allo stesso tempo trova­ta della kermesse di Bologna. Do­po «la meglio gioventù» abbiamo qui in esposizione i meglio nomi della comunicazione, da Umber­to Eco all’immancabile Saviano che rischia di deteriorarsi, spunta Benigni con una telefonata delle sue tutte un po’ identiche ma ap­passionanti, e si preannuncia il di­battitone fra Monti e Scalfari che è il colpaccio maggiore non solo e non tanto perché investe l’attuali­tà con la forza di un treno, ma per­ché conferma l’atteggiamento quasi subordinato che i politici in genere hanno avuto e hanno nei confronti dell’uomo e di quello che fu il suo giornale. Se dicessi che Monti avrebbe fatto meglio a declinare l’invito e produrre una grande conferenza stampa a più voci, verrei accusato di essere invi­dioso del successo di Scalfari e di Repubblica , ma si tratta di altro: è quel quid in più per cui a Largo Fo­che­tti oggi come a piazza Indipen­denza ieri possono dire che i lea­der li certificano loro e che se non nascono e non proseguono con la loro (di Repubblica ) benedizione, entrano nel cono d’ombra e spari­scono come il sorriso del gatto di Alice. Ezio Mauro ha dedicato tanto di quel tempo, nell’apertura della Quattro Giorni di Bologna a nega­re che­esista un partito di Repubbli­ca pronto per le prossime elezioni, da far pensare che qualcosa di ve­ro ci doveva pur essere. Ma quel che secondo me di più conta, è che questo giornale non è oggi e non è mai stato «soltanto» un giornale ma un elemento attivo nel gioco della politica. E lo è anche in que­sti giorni autocelebrativi non per­ché racconta lo stato delle cose dal suo punto di vista, ma perché con la sua imponente massa critica rie­sce a creare una sort­a di campo ma­gnetico in grado di spostare la per­cezione e i comportamenti. Tutto ciò va al di là della natura «di sini­stra » di quel giornale che è anche il partito di se stesso, e riguarda inve­ce la commistione dei generi se­condo cui chi sta in platea non par­tecipa anche come attore e come regista alla commedia. O tragedia comica che sia.