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 2012  giugno 17 Domenica calendario

PER SALVARCI DOBBIAMO TORNARE ALLA LIRA

Alberto Bagnai insegna Politica economica a Pescara e in Francia e pensa che occorra uccidere l’euro per salvare l’Europa. Per spiegarlo, riempie il suo blog ( goofynomics.blogspot.it  ) di articoli e sta organizzando un convegno internazionale a Pescara per il 22 e 23 giugno. Titolo: Euro: Manage it or leave it.
L’euro va bene, è che c’è la crisi dei debiti sovrani.
I maggiori economisti internazionali, da Paul Krugman a Paul De Grauwe, non la pensano così. Se il problema fosse il debito pubblico, dal 2008 – quando esplode la bolla dei mutui subprime – la crisi avrebbe colpito prima Grecia e Italia (debito pubblico al 110% e al 106% del Pil), invece i mercati punirono Irlanda (44%), Spagna (40%) e Portogallo (65%), Paesi accomunati da squilibri di bilancia dei pagamenti, causati dalla rigidità del cambio, che hanno portato all’accumulazione di debito privato.
Debito privato?
Senza flessibilità del cambio, se un Paese compra all’estero più di quanto venda, dovrà farsi prestare dall’estero la differenza. Un deficit di bilancia dei pagamenti porta così a debiti verso l’estero, prevalentemente privati. Il resto del mondo continua a far credito per finanziare la vendita delle proprie merci, come succede tra Cina e Usa. La crisi in Europa esplode quando le banche tedesche, scottate dai subprime, devono rientrare dei loro crediti verso la periferia.
Ma tutti scrivono che il problema sono i debiti pubblici.
A monte il problema nasce perché le banche – i cui crediti sono i debiti dei privati – hanno prestato largamente, realizzando profitti: quando la crisi economica ha messo famiglie e imprese in difficoltà, lo Stato ha salvato le banche, tassando le famiglie. E ora il debito è pubblico.
Ma Giavazzi e Alesina dicono che è
colpa nostra che
non abbiamo fatto le riforme.
Potevamo approfittare di più del dividendo dell’euro, ma comunque prima della crisi il debito pubblico era sceso di oltre 10 punti. La spesa pubblica però non l’abbiamo potuta ridurre di più perché l’euro, penalizzando il nostro commercio, già ci sottraeva domanda estera.
Però la Germania le riforme le ha
fatte, vende pure in Cina.
Non è vero: la bilancia commerciale della Germania con la Cina era negativa ed è peggiorata. Invece è migliorata coi Paesi dell’Eurozona. Perché le riforme del mercato del lavoro in Germania si sono tradotte in una sostanziale precarizzazione, volta a comprimere i salari. E’ una svalutazione interna, la stessa che oggi viene chiesta a noi: ma la Germania, per assorbirne il costo sociale, violò per prima il Patto di stabilità e invece ora a noi chiede austerità.
Comprimere i salari? L’operaio tedesco guadagna il doppio dell’italiano.
In Germania non c’è solo la Volkswagen: c’è anche sotto-occupazione, ci sono i mini-job. Dopo le riforme i salari reali in media sono calati del 6,5 per cento.
L’euro, comunque, l’abbiamo fatto per avere stabilità.
Veramente oggi ci viene detto da illustri protagonisti dell’entrata nell’euro che questa valuta terrà perché conviene alla Germania.
Conviene anche a noi: dove andavamo con la liretta…
I manuali di economia ci spiegano che gli agganci a una valuta forte spesso servono a imporre agli attori sociali di un paese ‘disciplina’ con lo spauracchio del vincolo esterno: guardi come non sono cresciuti gli stipendi in Italia o quello che sta accadendo con l’articolo 18.
Ormai però siamo dentro e dobbiamo restarci.
In Italia abbiamo sotto gli occhi 150 anni di unione monetaria, politica, fiscale, eccetera. Quali sono i risultati? Il Mezzogiorno è oggi in deficit strutturale per 17 punti del suo Pil, che colma con risorse prese dal resto del mondo, fra cui trasferimenti fiscali dal Nord Italia.
Non starà dicendo che dobbiamo uscire dall’euro?
Temo sia doloroso ma inevitabile, dovremmo gestire questo processo anziché subirlo. L’euro è solo l’undicesima moneta dell’Unione, quella che funziona peggio: l’Europa c’era prima e ci sarà dopo.
L’uscita dall’euro è una catastrofe: la lira si svaluterà e non varrà più niente.
Nel medio periodo il cambio recupera il differenziale di inflazione accumulato col paese di riferimento negli anni del cambio fisso. Così è successo all’Argentina e all’Italia quando uscì dallo Sme nel 1992: oggi la svalutazione sarebbe attorno al 20%.
E così avremo il 20% in più di inflazione.
Tutti gli studi negano ci sia un rapporto uno a uno tra svalutazione e inflazione: sarebbe lecito attendersi un aumento dell’inflazione fra i 2 e i 4 punti. Nel ’92 dopo una svalutazione del 20%: l’inflazione scese dal 5 al 4%.