Massimo Firpo, Il Sole 24 Ore 17/6/2012, 17 giugno 2012
L’ERETICA DUCHESSA DI FERRARA
Figlia cadetta di Luigi XII di Valois e di Anna di Bretagna, Renata rimase orfana a 5 anni nel 1515, quando la legge salica sancì la successione di Francesco I di Angoulême e la ridusse a mera pedina di scambio nella politica dinastica della famiglia. Non certo agevolata dal suo aspetto fisico, piccola, bruttina, zoppa, dopo essere stata promessa in sposa a una mezza dozzina di teste coronate dovette infine accontentarsi del modesto principe italiano che finì con l’accaparrarsela quando aveva 18 anni, Ercole II d’Este, che avrebbe passato il resto dei suoi giorni a pentirsene amaramente. Gonfia di illimitato orgoglio per il suo altissimo rango e carica di frustrazioni per il ruolo marginale cui era stata relegata, madama Renea giunse a Ferrara accompagnata da una corte di quasi 200 persone: musici, cantori, cappellani, cuochi, sarti, orefici, palafrenieri, segretari, spenditori, paggi, dame di compagnia, precettori, poeti, letterati. Una corte che non si integrò mai con quella estense, ma rimase autonoma, anche nel modo di mangiare e di vestire, specie dopo il ritiro della duchessa nella villa di Consandolo.
A rendere storicamente rilevante quella vicenda, tuttavia, non fu la prevedibile idiosincrasia tra due teste coronate che la ragion di Stato aveva costretto a uno sgradito talamo, quanto il fatto che la duchessa portò con sé a Ferrara anche una fede formatasi al magistero irenico, evangelico, sincretista di Margherita di Navarra e a esso restò di fatto sempre fedele anche se approdata infine a lidi calvinisti. Ne scaturì un’identità religiosa salda ma al tempo stesso confusa, intorno alla quale gravitarono molteplici speranze, illusioni, ambiguità, contraddizioni e si addensarono i contrasti interni di quella piccola corte ereticale, dove a due passi da Roma si celebrava la santa cena secondo il rito di Ginevra. Di qui il groviglio di tensioni politiche e religiose strettosi intorno a lei, che questo libro dipana con sagace distinzione di tempi e di contingenze tra Francia e Italia, nell’intento di restituire un ’500 religioso «ancora ambiguo e aperto nei suoi esiti, che, tra le pieghe di scontri e conflitti già sanguinosi, mantiene nondimeno spazi aperti alla concertazione religiosa, a equilibri diversi da quelli poi effettivamente realizzatisi».
Lo stesso Calvino nel ’36 fu per breve tempo a Ferrara e si illuse di poter trasformare la corte di Consandolo in un’avamposto della Riforma svizzera al di qua delle Alpi, senza percepire quanto essa fosse una sorta di corpo estraneo nelle complesse reti del dissenso religioso italiano. La stessa Renata – duchessa protestante nel l’Italia del concilio e dell’Inquisizione – dovette far propri comportamenti di simulazione e dissimulazione religiosa contro i quali Calvino si scagliò con dure rampogne, sebbene troppo alto fosse il rango di quella riottosa discepola per indignarsi troppo dei suoi compromessi papisti. Nonostante la libertà di cui godeva, le relazioni su cui poteva contare, i mezzi di cui disponeva, insomma, Renata ebbe un ruolo marginale e il suo porsi al centro di un’estesa e ramificata rete di patronage non divenne strumento di propaganda, di trama organizzativa, di progettualità politica. Prigioniera del suo insopprimibile orgoglio per il sangue che le scorreva nelle vene e della sua piccola e autoreferenziale nicchia di libertà, la duchessa di Ferrara restò isolata dal variegato universo degli eterodossi italiani, che in massima parte guardarono a lei solo per averne qualche sostegno finanziario in momenti di difficoltà. Per parte sua, decisa a vendere la camicia piuttosto che venir meno a qualche "fratello" nella fede, come amava dire, a tutti prestò il suo aiuto, anche a esponenti del radicalismo eversivo di antitrinitari e anabattisti, e un profluvio di denaro si riversò dalle sue borse a sostegno di eterodossi d’ogni tipo e d’ogni risma.
Nella sua stessa corte, del resto, si affollarono personaggi di orientamenti molto diversi, che dovettero imparare a convivere, a tollerarsi, a rifiutare la logica dell’intransigenza dottrinale, a vivere insomma una sorta di "entropia teologica" che riprendeva aspetti fondamentali del magistero di Margherita di Navarra e al tempo stesso rendeva meno urgente l’azione degli inquisitori. In tal modo poté andare avanti per decenni «a sguazzare nel suo calvinismo nicodemita e a simpatizzare per le istanze più radicali» , finché nel 1554 un furibondo Ercole II la fece infine mettere sotto chiave, separandola dalle sue figlie e dai suoi cortigiani e costringendola a recitare il copione di un’apparente conversione, mentre inquisitori e gesuiti francesi si affannavano con scarso successo intorno a lei. «Madama vuole credere nella Chiesa cattolica ma non nella romana», si scriveva il 23 settembre di quell’anno, non senza riferire la diffusa opinione che si fosse comunicata «più per ceremonia che per volontà o fede che habbi in questo sacramento». Il che non era certo quanto Calvino insegnava, con le sue virulente esortazioni al martirio o all’esilio.
Continuò quindi a vivere la sua vita "scissa e ambigua" senza diventare né una buona cattolica né una buona protestante, restando quella che era sempre stata, fino al 1560, quando la morte del marito e la franca avversione del figlio la indussero a rientrare in patria, all’indomani della pace di Cateau Cambrésis che sanciva la fine di ogni velleità francese di sottrarre l’Italia alla pax hispanica di Filippo II. Si ritirò nel suo feudo di Montargis proprio mentre si inaugurava una lunga e sanguinosa stagione di guerre civili e religiose, dove nei 15 anni che ancora le restavano da vivere avrebbe continuato a soccorrere per quanto poteva gli ugonotti francesi, strenui fautori di una fede che non fu mai la sua.
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