Ermanno Cavazzoni, Il Sole 24 Ore 17/6/2012, 17 giugno 2012
ELOGIO DELLE ARTI MINORI
Mi piacerebbe far la rassegna delle arti talmente minori da non aver neanche un nome. Credo siano centinaia. Credo anche che non se ne accorga nessuno che esistono; quelli che se ne accorgono meno di tutti sono i critici d’arte. La rivelazione di queste arti minime l’ho avuta un giorno a Parigi. Stavo andando per un corridoio del metrò assieme a tutto il flusso di folla; a un certo punto ho visto che il flusso si doveva scansare perché c’era un uomo seduto molto compostamente vicino al muro che con un piattino chiedeva dei soldi, ed esercitava quest’arte: prendeva il labbro inferiore e se lo tirava su sopra il naso fin sotto gli occhi. Mi sono fermato a guardarlo e ha fatto per me due o tre spettacoli, fin che gli ho dato una moneta. La sua arte era di sembrare una faccia con due occhi e un mento; sembrava uno di quei mostriciattoli che ci sono in Bosch. Dopo mi ha detto che si doveva tenere allenato, se no il labbro tornava a accorciarsi, e che in gioventù arrivava a coprirsi anche gli occhi. Non so se è un’arte, se soddisfa i requisiti minimi per essere arte; è legittimo avere dei dubbi; c’è abilità, esercizio, ma c’è molta ripetitività. Cosa potremmo dire? che nel l’arte di contorcere la faccia, questa di sembrare tutto mento era l’espressione particolare di questo artista, una tappa nella storia di questa arte, sulla quale però non ho abbastanza informazioni e non conosco critici che l’abbian studiata. Poi questo artista del metrò ha detto che certi giorni gli riesce meglio e quasi lo fa senza mani; quel giorno lì però non era in vena, troppa gente. E così ho avuto l’intuizione che fosse un’arte, forse anche un’arte sacra, come tutte le grandi espressioni d’arte. Avevo visto a Venezia tempo prima una mostra di icone russe e bizantine, che sono facce di santi martiri, molto ripetitive, dipinte da monaci ortodossi; sembrano tutte uguali; poi ce n’era una ogni tanto "achiropita", fatta cioè senza mani (a-cheir), solo per ispirazione divina. Beh, non sapevo dire la differenza, ma queste immagini achiropite avevano qualcosa che le distingueva, una piega impercettibile di sofferenza, o un tocco di luce nella sofferenza del martire dipinto, che lo rendeva magnetico; non era una questione tecnica. Forse il monaco dopo digiuni, preghiere ossessive, la mente svaporata, in uno stato di spossatezza, quasi senza accorgersene, come se quasi non si servisse delle mani, dava quei colpi di pennello in uno stato di grazia, ed ecco il volto del santo achiropito, uguale agli altri a prima vista, ma con aggiunta una forza conturbativa, che io personalmente non so descrivere. L’artista del metrò mi aveva detto una cosa simile, che certi giorni era sotto ispirazione (non ha detto divina), e il labbro gli andava su quasi senza mani.
Quali altre arti minime ho visto? Anni fa a Bologna c’era un signore che con il fiato gonfiava una borsa dell’acqua calda, le classiche borse rettangolari di gomma, fino a farla scoppiare. C’era tutta una cornice di discorsi che faceva per dire quanto fosse difficile e pericoloso, e come ci volesse dell’arte, poi seguiva il gonfiamento, la borsa cresceva come un pallone fino a diventar spaventosa, ogni volta però era diversa, la gente attorno stava tesa aspettando lo scoppio, e più tardava più la gente si ritraeva, stringeva i denti e rideva in silenzio, per cui devo dire che come arte era comica, anche il fatto stesso che fosse una semplice borsa dell’acqua calda era un fatto geniale, che non aveva in partenza niente d’artistico, ma l’artista (che si chiamava Beppe Maniglia), col suo genio, da materia prima la faceva diventare materia d’arte. Poi lo scoppio, c’erano applausi, tutti tiravano un respiro di liberazione; si stava a guardare come ci fosse una forza magnetica, e ogni esecuzione aveva la sua esclusiva e irripetibile magia. Che arte è? Non so se rientra nella classe delle arti del soffio, tra cui anche le cornamuse e i vetri soffiati di Murano. Difficile dirlo.
Oggi è abbastanza diffusa l’arte di stare immobili; in genere pitturati di bianco per sembrare una statua. È un’arte di secondo grado: un uomo imita una statua, la quale imita un uomo; come vedete è un’arte sofisticata, leggermente ironica. Anche qui c’è un elemento di ascesi, che viene dagli antichi monaci santi stiliti che vivevano su una colonna; la dimensione sacra si è persa, è rimasta l’arte, farsi di marmo. A Roma, vicino al Pantheon, ho visto l’espressione a mio giudizio più alta: cinque artisti del colore del bronzo, con i vestiti che parevan di bronzo, gettati l’uno addosso all’altro contro un muro, come fosse un gruppo scultoreo che rappresentava la stanchezza o la sonnolenza, ma come fossero in bassorilievo; l’idea del bassorilievo soprattutto l’ho trovato un avanzamento nella storia dell’arte. Un passo ancora avanti sarebbe fare Garibaldi a cavallo, ma bisognerebbe ipnotizzare il cavallo. O fare il Laocoonte vaticano, quello coi due serpenti, ma il problema sono i due serpenti; come fare a convincerli? Sarebbe una rivoluzione.
Queste sono tutte arti del movimento, come è la danza ad esempio, arti fugaci. Ma ho visto arti minime stabili, che cioè lasciavano un artefatto. Ad esempio rivestire di cuoio una bottiglia. Questa però è un’arte che non ho ancora capito, quale posto ha nell’immaginario dell’umanità; l’artista prendeva una bottiglia vuota, qualunque bottiglia, da vino, da coca-cola, sfaccettata, panciuta eccetera, e la ricopriva di cuoio bagnato in modo che vi aderisse, poi lo cuciva come fanno i calzolai con le scarpe. Strana arte, senza concorrenza, senza possibilità di confronti. Poi ho visto che l’artista prediligeva le bottiglie da vino, dopo averle bevute le rivestiva di cuoio e le metteva in una bacheca. Nessun gallerista, che io sappia, s’è mai interessato, anche perché nessun critico s’è mai interessato; eppure ce ne sarebbe da dire, innanzitutto la costanza; e poi il cuoio; perché? E il vissuto autobiografico che c’è nella bottiglia bevuta. Io non so dire, ma un critico non potrebbe fornirmi dei significati?
Nella collezione Lombroso ricordo di aver visto un artefatto di un metro circa d’altezza, una specie di intelaiatura o struttura fatta di ossa di pollo. L’artista era un carcerato, se ben ricordo, e usava le ossa del pollo che mangiava ogni domenica, per tutto il tempo di detenzione. Un’opera in crescita. Si può dire che illustrava una parte importante della sua vita, ne esprimeva la monotonia, i giorni di festa che passano, coi loro residui nell’anima. Che arte è? autobiografia? le ossa di pollo usate come voce dell’anima?
Poi i castelli di sabbia, questa è un’arte disperata e volatile, che conosciamo tutti, la si insegna ai bambini, si vede che è formativa; è un’arte del ventesimo secolo, prima non c’era, nessuno andava sulla riva del mare, a far cosa?; e invece illustra la disperazione moderna; assieme all’arte di fare buchi in spiaggia, che è il castello in negativo; se il buco è molto fondo la gente approva e si ferma a guardare, c’è qualcosa che tocca le profondità dell’esistenza. Eccellono soprattutto i bambini, poi è un’arte che nel corso della vita si perde, anche se resta latente, come un campanello che suona nel corpo calloso.