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 2012  giugno 17 Domenica calendario

I DEBITI «PESANO» PER 25 ANNI

Molti, se non tutti, i problemi economici più pressanti riguardano il massiccio accumulo di debito. In Europa, una combinazione tossica di debito pubblico, bancario ed estero nella periferia minaccia di sconvolgere l’Eurozona. Dall’altra parte dell’Atlantico, una fase di stallo tra democratici, Tea Party e repubblicani della vecchia scuola ha prodotto un’insolita incertezza su come gli Stati Uniti porranno fine nel lungo periodo a un deficit pubblico pari all’8% del Pil. Il Giappone ha intanto un deficit del 10% del Pil, anche se una crescente schiera di neo-pensionati è passata dall’acquistare bond giapponesi al venderli.
A parte torcersi le mani per lo sconforto, cosa dovrebbero fare i governi? Da una parte c’è il rimedio keynesiano semplicistico secondo cui i deficit non contano quando l’economia è in profonda recessione; anzi, più ampi sono meglio è. All’estremo opposto ci sono gli assolutisti sul fronte “tetto del debito” i quali vorrebbero che i governi iniziassero a portare i conti in pareggio da domani (se non da ieri). Entrambe le posizioni sono superficiali.
Gli assolutisti sottovalutano grossolanamente gli ingenti costi di aggiustamento di un improvviso stop nel finanziamento con debito. Tali costi sono il motivo per cui i Paesi in difficoltà come la Grecia devono far fronte a una massiccia deriva sociale ed economica quando i mercati finanziari perdono la fiducia e i flussi di capitale si esauriscono all’improvviso. È logico sostenere che i governi dovrebbero presentare bilanci in pareggio come tutti noi; sfortunatamente, non è così semplice. I governi devono far fronte a una miriade di spese relative a servizi di base come la difesa, le infrastrutture, l’istruzione e la sanità, per non parlare delle pensioni. Nessun governo può sottrarsi a tali responsabilità da un giorno all’altro. Ovviamente, un governo può colmare un buco nel bilancio aumentando le tasse, ma qualsiasi improvviso cambiamento può enfatizzare le distorsioni causate dalle imposte.
Se gli assolutisti sono ingenui, lo sono altrettanto i keynesiani semplicistici. Vedono la prolungata disoccupazione post-crisi finanziaria come una giustificazione irresistibile per un’espansione fiscale più aggressiva, anche in paesi già soggetti a massicci deficit. Chi è in disaccordo con loro si dice favorevole all’“austerity” in un periodo in cui tassi superbassi indicano che i governi possono contrarre debiti quasi a costo zero.
Chi pecca dunque di ingenuità? È alquanto corretto sostenere che i governi dovrebbero solo puntare a raggiungere un pareggio di bilancio nel ciclo economico, registrando surplus durante le fasi di boom e deficit quando l’attività economica è debole. Ma è errato pensare che un massiccio accumulo di debito sia un “pasto gratis”.
In una serie di lavori accademici realizzati con Carmen Reinhart – tra cui, il più recente, il lavoro condotto insieme a Vincent Reinhart (Debt Overhangs: Past and Present) – troviamo che livelli di debito molto elevati pari al 90% del Pil sono un peso secolare che si ripercuote sulla crescita nel lungo termine e che spesso dura per due decenni o più. I costi cumulativi possono essere sbalorditivi. Gli episodi di debito elevato registrati dal 1800 in poi sono durati 23 anni e sono associati a un tasso di crescita che è oltre un punto percentuale al di sotto di quello previsto per i periodi con livelli di debito inferiori: dopo un quarto di secolo di debito elevato, il reddito potrebbe essere il 25% in meno di quanto non sarebbe con normali tassi di crescita.
Ovviamente, esiste una corrispondenza bilaterale tra debito e crescita, ma le normali recessioni durano solo un anno e non possono spiegare un periodo di malessere di due decenni. È più probabile che il peso sulla crescita abbia origine dalla necessità del governo di aumentare le imposte, nonché da una minore spesa negli investimenti. Quindi la spesa pubblica fornisce un incentivo nel breve termine, ma scende a patti con un declino secolare nel lungo periodo.
Fa riflettere il fatto che quasi la metà dei casi di debito elevato dal 1800 siano associati a tassi reali (depurati dell’inflazione) bassi o normali. La lenta crescita del Giappone e i bassi tassi degli ultimi due decenni sono emblematici. Inoltre, sostenere un enorme peso debitorio rischia di far lievitare in futuro i tassi globali, anche senza un tracollo in stile greco. È ciò che accade oggi, quando, dopo il massiccio e prolungato allentamento monetario deciso dalle principali banche centrali, molti governi si ritrovano con titoli correlati al proprio debito a scadenze eccezionalmente brevi. Di conseguenza, corrono il rischio che un’impennata dei tassi si traduca rapidamente in costi di indebitamento più elevati.
Considerato che molte delle odierne economie avanzate sfiorano livelli di debito pari al 90% del Pil espandere i già ampi deficit odierni rappresenta una proposta rischiosa, e non la strategia a costo zero tanto sostenuta dai semplicistici keynesiani. Gli elettori e i politici devono essere consapevoli degli approcci allettanti ma semplicistici agli attuali problemi di debito.
(traduzione di Simona Polverino)