Mirko Molteni, Libero 15/6/2012, 15 giugno 2012
NAVIGATORI, MA NAUFRAGHI SULLA CARTA
Non potevano credere alle loro orecchie i compatrioti di Pitea di Massalia, l’odierna Marsiglia, quando questi, tornato verso il 320 a.C. da un avventuroso viaggio nel Nord Atlantico, quasi ai margini dell’Artico, raccontava di escursioni di marea di 6 metri e di acque così gelide da diventar solide, formando un tappeto galleggiante di quelle che parevano meduse, ma erano in realtà dischi di ghiaccio agitati dalle correnti. Il navigatore originario della colonia fondata dai Focesi nel sud dell’attuale Francia era stato uno dei primi a descrivere fra lo stupore dei contemporanei un mare che non fosse il familiare Mediterraneo, chiuso e relativamente tranquillo, eppure anch’esso temuto dagli antichi marinai. RANOCCHI SULLO STAGNO Da sempre signore incontrastato di questo pianeta, soggiogandone i tre quarti della superficie, il Mare, quello con la M maiuscola a rappresentare la fondamentale unità dei suoi grandi e piccoli bracci, lanciò subito la sua sfida all’uomo, questo piccolo «ranocchio sui margini dello stagno», come lo aveva definito Platone. La bellezza aliena, e dunque pericolosa, dell’ambiente oceanico ha popolato i sogni, ma anche gli incubi, di tutte le epoche. Solcando le onde si potevano raggiungere i magici Paesi delle spezie, miraggio dei galeoni portoghesi e spagnoli del XV e XVI secolo, o evanescenti terre come l’isola di Antilia, dalle sabbie d’oro. Spazi liberi dalla società, talvolta oppressiva, che ci si lasciava alle spalle insieme alla sicurezza della terraferma. Ma gli abissi potevano celare mostri paurosi capaci di ghermire le navi, almeno così si vociferava. Sui serpenti marini di tutte le risme primeggiava per orripilanza il Kraken della tradizione scandinava, con i suoi mille tentacoli. Parimenti, le titubanti sentinelle di vedetta sulle coffe degli alberi maestri temevano, nel loro scrutare il blu, di incrociare lo sguardo con messaggeri di sventura come il pesce-monaco o il vescovo marino, le cui raffigurazioni, anticipanti i vari uomini-pesce di Hollywood, ammiccano dai libri ingialliti del Seicento. La dimensione culturale dell’eterno confronto fra l’umanità e le gigantesche estensioni salate del globo va ben al di là della mera evoluzione tecnica della navigazione, con la trita e ritrita successione dalla trireme alla galea medievale, poi dal veliero al bastimento a vapore. Tutt’altro livello è toccato dalla Storia del Mare dell’inglese John Mack, che l’editrice Odoya si appresta a far uscire finalmente in italiano (pp. 304,euro 18). È un’epopea che tocca i recessi più profondi dell’animo, da cui scaturirono nei secoli suggestioni mitologiche e letterarie, oltre a guidare, nel vero senso della parola, la vita stessa di intere comunità specializzatesi nel rapporto esclusivo con l’oceano. Come gli incredibili gitani del mare, il popolo dei Bajau Laut che sulle coste delle Filippine vive ancora oggi in villaggi costruiti interamente su palafitte infisse nei bassi fondali, non scendendo mai a terra e barattando i frutti della pesca con intermediari terrestri per procurarsi alcuni prodotti del mondo asciutto, specie riso e ortaggi, ma non la carne dei quadrupedi, che aborrono. «Tra le loro comunità», spiega l’autore, «la paura del mare, a patto che esista, è limitata a uno o due luoghi in cui sono note forti correnti e nelle prossimità di buche profonde vicino ad alcune scogliere che possono causare pericolose risacche. A memoria d’uomo, solo una loro barca si è dispersa ». A BORDO DELLE BALENIERE Un indissolubile legame di vita col mare che emerge con sorprendente parallelismo perfino nel Moby Dick di Hermann Melville, laddove sotto l’ossessione del capitano Achab per la balena bianca, portatrice di disastri, brulica rigoglioso il sottobosco delle ampie descrizioni che il romanziere americano dedica alla vita e alle consuetudini a bordo delle baleniere dell’Ottocento. Mack non esita a definire l’opera una sorta di «monografia etnografica», frutto anche dell’esperienza diretta di Melville, egli stesso imbarcato a caccia di capodogli fra il 1839 e il 1844 e fruitore di prima mano della notizia reale dell’affondamento di una nave speronata da una balena, che gli ispirò l’idea del romanzo. Ampio spazio viene inoltre dedicato alla simbologia della spiaggia, porta di comunicazione fra i due mondi, nonché alle ricadute sulla religiosità delle comunità di pescatori. Il dilemma della doppia natura del mare, amico-nemico come un Giano bifronte, toccò anche la letteratura italiana, a cui è dedicata un’interessante appendice al libro, a cura dell’Istituto Culture Mediterranee di Lecce. Spicca come per troppo tempo, lungi dallo stereotipo del «popolo di navigatori », sia mancato un vero romanzo marinaro italiano, tanto sconveniente era parlare, soprattutto fra Risorgimento e fascismo, dei bastimenti carichi di emigranti che salpavano per le Americhe. Fra i pochi esempi, il relativamente recente Horcynus Horca, scritto nel 1975 da Stefano D’Arrigo e ispirato apertamente all’Odissea nel narrare del rocambolesco ritorno a casa di un marinaio della Regia Marina nel 1943.