Guido Olimpio, la Lettura (Corriere della Sera) 17/06/2012, 17 giugno 2012
L’ULTIMA BATTAGLIA (PERSA) DI CUSTER
George A. Custer morì nel pomeriggio del 25 giugno 1876 su una collina del Montana, a tiro di fucile dal fiume Little Bighorn. Ma Custer è come se non fosse mai morto. Il generale dai «lunghi capelli» e la sua ultima battaglia sono resuscitati dalle polemiche. Il tempo non ha cancellato passioni e controversie attorno ad uno degli ufficiali più discussi della storia americana. Pochi stanno nel mezzo. Preferiscono stare «con» o «contro». Come gli autori dei tanti libri scritti sul generale. Testi per condannarlo. Oppure per assolverlo, dividendo le responsabilità del disastro con l’intero stato maggiore. Scontri dialettici lontani dalle migliaia di persone che, come ogni anno di questi tempi, fanno visita al sito della battaglia.
Per alcuni non è un viaggio di piacere, piuttosto è un pellegrinaggio. Un ripercorrere il cammino dei soldati che alla fine di giugno del 1876 incontrarono la fine in quest’angolo dell’Ovest. Per due volte ci siamo mescolati a loro, seguendoli sui sentieri del Bighorn, ascoltando i loro commenti, accompagnandoli nella cerimonia che ricorda il sacrificio del Settimo Cavalleria. Tra squilli di tromba e sciabole sguainate, cartoline e souvenir, storia e sagra, hot dog e zucchero filato. La cosa più vicina a quella mattina del 1876 è, a parte il luogo, la polvere alzata dai cavalli.
Già, la polvere. Nel giorno fatale ha avuto, in qualche modo, un ruolo. La vedono gli scout indiani che precedono Custer. Lo mettono in guardia: è l’indizio di un gran numero di cavalli, dunque di un villaggio non comune. È quello che il comandante del Settimo sta cercando. La missione che gli hanno affidato, insieme a quasi 700 soldati, è di trovare i pellerossa. Custer freme. Vuole scovarli prima che sia troppo tardi. Per questo non ha aspettato rinforzi, per lo stesso motivo ha lasciato indietro due mitragliere Gatling. Utili ma ingombranti. E dunque il generale decide di procedere alla testa di una colonna di oltre 200 uomini su una serie di colline che costeggiano il Little Bighorn. Si porta dietro i due fratelli, un nipote e il cognato. Una seconda colonna, affidata al capitano Frederick Benteen, deve avanzare sul centro, pronta a sostenere il comandante. Poi, nella valle, la terza «lancia», affidata al maggiore Marcus Reno. La mossa diventerà uno dei capi d’accusa contro il generale, ritenuto «uno sconsiderato cacciatore di gloria»: dividere le forze già esigue sarebbe stato un errore. Accusa seguita dalla seconda: una volta scoperto il nemico, avrebbe dovuto aspettare — come gli era stato ordinato — il «grosso» della spedizione. Oggi non tutti sono d’accordo su questo secondo rilievo, in quanto Custer sarebbe stato autorizzato dalle esigenze operative. Ossia il rischio di perdere contatto con gli avversari.
Quali che siano state le ragioni, è però evidente che il piano fallisce. Troppi gli indiani — si è calcolato che fossero circa 1.800 —, troppe le indecisioni (per non dire peggio) di alcuni sottoposti. La colonna Reno, poco dopo le 15, è già nei guai. Gli indiani ne hanno stoppato la marcia, costringendola a ripiegare prima in un boschetto, poi su una collina, dove si trincera usando le cavalcature uccise e avvallamenti sul terreno. Oggi alcune di queste posizioni sono ancora visibili e aiutano a capire che cosa abbiano vissuto i soldati. Non più fortunata la colonna Benteen. Doveva coprire il fianco, ma è costretta a piegare verso Nord per dare supporto a Reno. E tutto ciò avviene mentre Custer è all’oscuro dei problemi incontrati dagli altri distaccamenti. Arrivato su una posizione dominante, riesce a vedere il villaggio. E capisce che serve aiuto. Il suo aiutante, William Cooke, scrive il famoso messaggio con la richiesta di rinforzi a Benteen e lo affida al trombettiere John Martin. Il suo vero nome è Giovanni Martini ed è italiano, come altri 5 connazionali che fanno parte del Settimo. La storia dice che sarà proprio Martini l’ultimo a vedere ancora in vita gli uomini di Custer. Da quel momento, infatti, le ricostruzioni sono affidate alle testimonianze orali degli indiani. Non sempre concordanti.
Le cinque compagnie di Custer — C, E, F, I, L per un totale di 225 uomini — provano ad avvicinarsi al villaggio. Un reparto tenta un’incursione. Ma incontra forze nemiche preponderanti, guidate dal capo Gall. Il generale è costretto ad allargarsi. Altra deviazione per poi piegare verso Est. La sua sorte è segnata. Gli indiani arrivano a ondate. E sparano bene. Non hanno solo archi e frecce. Sono momenti drammatici. Quando si è sul posto, si prova a immaginare che cosa sia stato. Con gli indiani, guidati dal famoso Cavallo Pazzo, impegnati a caricare le giacche blu da ogni lato. Loro possono muoversi mentre i militari sono inchiodati. I rinforzi sono lontani e paralizzati. Le munizioni al minimo. E non c’è neppure un albero dietro il quale trovare riparo dalle pallottole che fischiano. La maggior parte del contingente si attesta su leggero declivio che «guarda» giù verso il fiume. Non c’è modo di scappare alla morsa. Anche se alcuni ci provano con azioni disperate. I loro cadaveri saranno trovati un po’ più distanti, a testimoniare il tentativo di levarsi da quella sacca. Non mancano casi di cavalli che, imbizzarriti, corrono dritti verso il villaggio indiano, consegnando i militari alla morte.
La versione tramandata — rilanciata poi anche da Hollywood e dalla stampe dell’epoca — è quella della last stand. La resistenza estrema, con Custer in mezzo ai suoi uomini, la bandiera rossoblù con le spade incrociate ricamate. Non mancano interpretazioni diverse. Che smentiscono questa «visione». L’ultimo atto — sostengono — si è sbriciolato in un’infinità di piccoli scontri, con i soldati sparpagliati e uccisi uno dopo l’altro. Il capo indiano Pioggia in Faccia, tra quelli che assistono alla carneficina, ricorderà: «Era facile come ammazzare delle pecore». I film su Custer ce lo mostrano con i capelli lunghi fino alle spalle. Errore, dicono con puntiglio: se li era tagliati. Dettagli minori, che però ogni volta danno modo di accendere scaramucce tra esperti. A mettere tutti d’accordo è l’epilogo. Feroce. Molti corpi dei 225 soldati subiranno mutilazioni. E diversi saranno sepolti senza che si possa dar loro un nome. Orrori di una lunga guerra dove i bianchi e gli indiani non hanno avuto alcuna pietà. Con i protagonisti delle due parti che un giorno sono eroi e l’altro massacratori. Giudizi e pregiudizi, con la storia piegata alle proprie esigenze.
Custer, da vivo e da morto, si incastra alla perfezione nel mosaico. E offre sempre spunti. Poche settimane fa, una rivista dedicata al West ha voluto rammentare che «l’uomo che tutti amano odiare» probabilmente salvò l’Unione durante la cruciale battaglia di Gettysburg, nel luglio 1863. Due cariche ardimentose per fermare la cavalleria sudista di Stuart. Solo che quella volta tornò a casa, mentre al Little Bighorn morì «con i suoi stivali» a soli 37 anni.
Guido Olimpio