Guido Vitiello, la Lettura (Corriere della Sera) 17/06/2012, 17 giugno 2012
PIU’ SOZZURA CHE ZABAIONE: TONY PAGODA CHI?
Delfini che si arrampicano sui monti, fiere dei boschi che si tuffano in mare: una volta che Zeus ha fatto buio a mezzogiorno, pensò Archiloco dopo un’eclissi di sole, ogni inversione dell’ordine naturale diventa possibile. Lo stesso può pensare chi entra oggi in un megastore e si vede davanti, poniamo, il dvd di un film di Alessandro Baricco e un romanzo di Paolo Sorrentino. Ma come, i registi scrivono libri, i romanzieri girano film? E questo è il meno: troverà spettacoli allestiti da giornalisti e inchieste condotte da attori; manifesti ideologici stilati da comici e antologie di barzellette dei politici; libri di poesie firmati da rockstar e filosofi che incidono dischi pop. Ma prima di tornare ad Archiloco (e maledire Zeus) farà bene a leggere Montale: «Ora c’è stata una decozione / di tutto in tutti e ognuno si domanda / se il frullino ch’è in opera nei crani / stia montando sozzura o zabaione».
Largo ai factotum! La preoccupazione dell’«altrui mestiere» va scemando — e da noi più che altrove. Santi, poeti e navigatori, ma meglio ancora le tre cose insieme: c’è da tener viva una tradizione autoctona che dal prototipo di Leonardo (il genio integrale) discende a Pasolini (l’intellettuale multimediale). Ma alle origini di questa caricatura di Rinascimento ci sono le mille piattaforme del marketing editoriale, dai talk show ai festival, un’industria di pantheonizzazione in vita che sforna in serie un prodotto tanto facile da smerciare quanto difficile da classificare: l’Autore (di qualunque cosa), di cui si dà per inteso che possa padroneggiare tutte le forme espressive in forza della sua personalità, e che è al tempo stesso icona warholiana, vip da scarrozzare, oracolo da interpellare, testimonial di cause nobili, dispensatore di aura in bomboletta e logo da apporre sulle merci più varie a garanzia di qualità.
Sozzura o zabaione? Prendiamo il nuovo romanzo di Paolo Sorrentino, Tony Pagoda e i suoi amici (Feltrinelli), che prosegue l’esordio di Hanno tutti ragione (oltretutto, dalle sceneggiature romanzate ai romanzi veri e propri il salto è grande ma non tanto da rompersi una gamba). Anche qui è di scena il «vecchio cantante di successo e d’insuccesso», cinico e nostalgico, già protagonista del film L’uomo in più (dove però aveva cognome Pisapia). Gli «amici» che Tony Pagoda incontra sono, come lui, vecchie glorie del mondo dello spettacolo — Carmen Russo, Antonello Venditti o Maurizio Costanzo — e giovani eroi pop (Ruby Rubacuori o Lavezzi), ma anche eminenze immaginarie (il politico berlusconiano in visita in Corea del Nord) e più anonimi compagni di strada. E il riluttante scrivano di tutte queste avventure, che rivelano le pieghe più cupe dell’Italia spensierata, è l’ex cognato Ughetto De Nardis, commerciante. Che non ha completato gli studi, e scrive dietro committenza di Tony prestandogli la prima persona.
La prefazione, quella la firma lui, annunciando di voler parlare «col cuore sulla manèlla pelosa». Ma questo italiano finto-dialettale piuttosto laido non è il solo pegno che il lettore deve pagare. Gli toccherà attraversare scene indicibilmente trash, i chihuahua di Carmen Russo che saltano addosso a Tony e lei che lo libera «a colpi di décolleté»; sorbirsi un bel po’ di cattivo lirismo, il sole che tramonta «tirandosi appresso, al guinzaglio, un barlume di malinconia» e le hostess che guardano «la pioggia scrosciare dietro le finestre delle promesse mancate»; acconsentire a tante metafore formate con malagrazia («un grumo di rabbia, impotenza e nostalgia sembra che lo afferri per le caviglie») e ad altre che, affastellandosi, si distruggono l’un l’altra («farsi entomologo di questa folla di bipedi accalcati e abbigliati come pagliacci di serie C»). Sozzura o zabaione?
Dipende dai palati, ma è lo stile iperespressionista di Sorrentino, che ha fatto la fortuna dei suoi film: procede per accumulazione, mai per sottrazione, non sa rinunciare a nulla, vorrebbe fare di ogni frase un motto da scolpire su una lapide e di ogni inquadratura un pezzo da esporre al Guggenheim. Punta a fare il virtuoso in tutti i canali espressivi, ma in fin dei conti i suoi sforzi sono rivolti a un solo fine: creare un personaggio smisurato («larger than life», dicono gli inglesi) e girargli ossessivamente attorno, come una carpa. Ma — e qui sta il dramma di Sorrentino — a dispetto di tutte le acrobazie formali i suoi eroi non prendono mai vita, e quel che resta è un campionario di tic, bizzarrie, gesti, aforismi, frammenti che indicano un centro vuoto.
Sulla copertina, neppure a farlo apposta, c’è uno specchio in cornice dove il lettore non riuscirà mai a mettere a fuoco un volto. È il simbolo di una patologia che affligge tanta narrativa recente, variante letteraria della «prosopagnosia», quel deficit percettivo che impedisce di riconoscere le facce. Storie e idee non mancano, ma incontrare un personaggio, un personaggio vero, è fortuna sempre più rara: vediamo aggirarsi per lo più moncherini, esseri acefali, argille mezzo sbozzate o poveri cristi schiacciati dai funambolismi verbali di chi li ha messi al mondo. Sorrentino avverte più acutamente questa mancanza, ma quel che vediamo nelle sue opere è un uomo che si affanna a dar forma a gigantesche statue destinate a rimanere senza volto. Tanto da insinuarci l’atroce sospetto che i tuttofare del nuovo Rinascimento, alla fine, sappiano dar vita a un solo personaggio: l’Autore.
Guido Vitiello