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 2012  giugno 17 Domenica calendario

IL REALITY DEL MINOTAURO - I

miti, gli archetipi, i simboli si comportano un poco, nel loro interminabile viaggiare nel tempo e nello spazio, come quegli aristocratici di una volta che, pur caduti in miseria e costretti a indossare abiti dimessi e viaggiare in terza classe, non perdevano nulla dell’antica distinzione, rimanendo se stessi anche nelle più umilianti circostanze. I miti, gli archetipi e i simboli amano comportarsi con la stessa sovrana sprezzatura. Evitano accuratamente, insomma, le cime dell’arte, dove stanno appollaiati gli Autori, con tutto il loro prestigio. La loro è un’energia impersonale, più simile alle forze della natura che alle fatiche della creazione individuale. E se proprio devono fare capolino da qualche narrazione contemporanea, preferiscono di gran lunga agli artisti gli artigiani, i creatori di tutte quelle laboriose inezie commerciali che, se pure hanno delle ambizioni, le nascondono benissimo.
Da questo punto di vista la saga di Hunger Games è un caso da manuale. E il fatto che si tratti di un racconto consapevolmente destinato a un pubblico di adolescenti anziché diminuirne il significato lo esalta come meglio non si potrebbe desiderare. Tanto per cominciare, gli adolescenti non sono mai, quando si parla di immaginario, manipolabili con facilità. Le storie che amano potranno essere discutibili se misurate su raffinati metri estetici e filosofici, potranno anche gettare genitori e insegnanti in uno stato di doloroso stupore, ma la molla dell’identificazione non scatta mai invano, e la vecchia catarsi aristotelica, si può starne certi, inizierà ad elargire i suoi benefici psicologici in prossimità del gran finale. Sarà un artigiano e non un artista, ma il tipo di narratore che sa muovere questi fili sottilissimi, trasformandosi nel pifferaio magico di inquieti sedicenni, è di per sé un individuo dotato di poteri eccezionali, che non esiterei a definire magici.
Certo, bisogna subito aggiungere che esiste una storia dell’adolescenza come esiste una storia politica e una storia economica. E di fronte a Hunger Games i tempi di Harry Potter sembrano sfumare in un passato remotissimo e irripetibile. A partire dal grande tema dickensiano dell’orfano maltrattato, il capolavoro della Rowling è ancora capace di attingere alle generose miniere del romanzo classico. E la credibilità dell’eroe e dei suoi comprimari (buoni o malvagi che siano) si radica in una tecnica classica di costruzione del personaggio, del suo carattere e delle sue emozioni. Con Hunger Games, tutti questi vecchi procedimenti sembrano spediti senza rimpianti in soffitta. Nella loro perfetta equivalenza, il libro di Suzanne Collins e il film di Gary Ross, messa da parte la tessitura del romanzo, sembrano derivare la loro efficacia da una sorprendente miscela di arcaico e di contemporaneo, in bilico tra la danza sacra e il reality show, il racconto di caccia e le più raffinate tecniche della persuasione occulta. Senza nessun bisogno di ricorrere alla psicologia, che del romanzo è la madre e la figlia. Perché quello di Hunger Games è un mondo in cui l’attimo presente, con la sua irripetibile combinazione di desideri ed impulsi, si afferma a scapito della storia individuale, che resta sullo sfondo, e viene smentita ogni volta che la necessità lo impone.
La vicenda è nota: in un futuro o in un mondo possibile non si sa se più terribile o pacchiano, ventiquattro ragazzini vengono scelti come vittime di un gioco all’ultimo sangue, dal quale può uscire un solo vincitore, quando tutti gli altri sono morti. Come il Grande Fratello, gli Hunger Games si svolgono ogni anno, sotto gli occhi di milioni di spettatori. Costretti a partecipare alla carneficina, i ventiquattro ragazzini (dodici maschi e dodici femmine) sono sorteggiati tra la popolazione di dodici «distretti» che in un tempo ormai abbastanza remoto commisero la colpa di ribellarsi al potere centrale. Con il loro periodico bagno di sangue, gli Hunger Games cementano una società fondata sulla disuguaglianza e sul suo indispensabile complemento, che è lo spettacolo. Ma credo che gli adolescenti, più che da un’ennesima versione fantastica delle teorie di Guy Debord, siano coinvolti emotivamente dal nudo fatto del sorteggio, che produce vittime sacrificali da immolare sull’altare dell’intrattenimento. Quando il Caso, invece che il puro e semplice motore del disordine del mondo, si rivela come un travestimento, una maschera del Destino, significa che siamo entrati in uno spazio narrativo ben diverso da quello del romanzo: è lo spazio chiuso della tragedia, dove la sventura è il segno dell’elezione, ed ogni gesto emana il suo particolare bagliore metafisico, e per così dire puzza di assoluto. Rovesciando una gerarchia consolidata, nella tragedia lo spazio ribalta la sua sottomissione al tempo, e inizia a dettare le regole del gioco. Questo prodigio è possibile solo se, da un determinato luogo, non si può più fuggire. Al dialogo e alla cooperazione, che la libertà rende possibili, non può che sostituirsi la violenza, il tutti contro tutti dei prigionieri.
In quella cupa e splendida allegoria della società che è L’angelo sterminatore Luis Buñuel descrisse alla perfezione questo processo ineluttabile che dalla clausura conduce al crimine. Non c’è un’eccezione alla regola, quando si tratta della natura umana. Sostituite al salotto di Buñuel un’isola tropicale, e alla buona società un gruppo di ragazzini dispersi a causa di un incidente aereo, e il risultato sarà lo stesso. Un anno dopo L’angelo sterminatore, che è del 1962, un altro grandissimo regista, Peter Brook, porta sugli schermi Il signore delle mosche, dal romanzo più famoso di William Golding, pubblicato nel 1954. I ragazzini di Golding e Brook non fanno che correggere la diagnosi: quello che potremmo attribuire al disagio della civiltà, va ascritto all’esistenza in quanto tale, che non conosce stati di innocenza, ma circostanze più o meno favorevoli a qualche forma di (apparente) innocenza. Proprio come se volesse suggerire un’immagine della nostra mente e di tutti i suoi pericoli, l’isola di Golding assomiglia talmente a un labirinto, che un potente Minotauro non tarda ad accamparsi al suo centro, esigendo il suo tributo.
Il signore delle mosche è indubbiamente un’opera-spartiacque. Senza l’opera del romanziere britannico, sarebbe difficile immaginare sia South Park che Lost. Ma nemmeno tre artisti potenti come Golding, Buñuel e Brook avrebbero potuto immaginare qualcosa come il reality show, vale a dire il modello narrativo fondamentale di Hunger Games. L’invenzione di Suzanne Collins è di una povertà quasi disarmante, ma proprio per questo risulta vincente. In Hunger Games la coincidenza tra il vecchio spazio tragico, grondante di sangue, e quello del reality show, pervaso di desiderio e seduzione, si fondono totalmente. Rivelano l’identità delle loro regole essenziali. E nello stesso tempo, grazie alla libertà della fantascienza, la violenza addomesticata e piccolo-borghese dei nostri soporiferi Grandi Fratelli si mostra in una versione letterale e barbarica. Ma anche lì, in fin dei conti, dove invece della nomination si rischia la morte per coltello o freccia, vige la regola che chi ha una storia d’amore ha più possibilità di andare avanti e di godere dei favori del pubblico. Per colmo di ironia, l’«arena» dove si svolgono gli Hunger Games evoca proprio il contrario, è una foresta che fa pensare a un numero infinito di percorsi e vie di fuga. Ma non si tratta che di una realtà virtuale, dove anche la successione del giorno e della notte è regolata in una sala di regia da inflessibili strateghi del dolore e dell’identificazione. Sono loro a svolgere il compito essenziale: mettere in relazione la solitudine del capro espiatorio, sacrificato in esecuzione di decreti arcani e crudeli, e la moltitudine di sguardi di cui si compone un pubblico affamato della più pericolosa ed esigente delle merci: le emozioni.
Nel suo fondamentale cinismo, nel suo guardare al dolore umano come l’ennesimo passatempo offerto in pasto alla sua noia, il pubblico di Hunger Games sembra una versione degradata degli antichi dèi. Al vincitore non può offrire che l’ambiguo privilegio di sedersi, ancora sporco del sangue dei suoi simili, dall’altra parte dello schermo. Non manca, infine, in questa fantasia potente e banale al tempo stesso, un barlume di speranza: perché in ogni gioco, prima o poi, irrompe qualcuno così disperato, o così risoluto, da trovare il modo di infrangerne le regole. Ma questa, a ben guardare, è la parte meno interessante di tutta la storia.
Emanuele Trevi