Telmo Pievani, la Lettura (Corriere della Sera) 17/06/2012, 17 giugno 2012
E L’UOMO INCOMINCIO’ A PARLARE
La disfida, non sempre cavalleresca, cominciò un secolo e mezzo fa. Nel 1866 la Società di linguistica di Parigi, appena fondata, vietò per statuto ai propri aderenti di alimentare discussioni circa le origini del linguaggio, in quanto infruttuose e senza possibilità alcuna di una trattazione affidabile. Nel 1872 l’interdizione fu confermata dalla Società filologica di Londra. Era stato lo stesso Alfred R. Wallace, co-scopritore della selezione naturale, ad affermare che l’evoluzione non avrebbe mai avuto alcunché da dire sulle facoltà superiori della mente umana come la coscienza e la parola, suscitando il disappunto del collega Charles Darwin. La peculiare proibizione parigina cadde nel 1876, ma allungò la sua ombra su tutto il Novecento, emarginando di fatto il tema e trasformandolo quasi in un tabù.
Per una ripresa del dibattito bisogna attendere gli anni Settanta del secolo scorso, non senza affilate polemiche. Noam Chomsky sosteneva ancora nel 1988 l’impraticabilità di una visione evoluzionistica del linguaggio verbale umano, in quanto troppo complesso: un Rubicone qualitativo insuperabile tra noi e gli animali, chiamato sintassi, senza gradazioni né comparazioni possibili. Difficile però non chiedersi come possa essere emersa nella mente umana questa sublime e universale capacità innata: tutto in un colpo, come Minerva dalla testa di Giove? O come un effetto collaterale piovuto dal nulla? Altri, molto convinti delle proprie capacità esplicative come Steven Pinker, pensano invece che il linguaggio sia né più né meno che un istinto plasmato dalla selezione naturale, dunque questione chiusa: è un classico adattamento all’ambiente sviluppatosi gradualmente. Ma di storie così possiamo raccontarne a iosa. Per renderle credibili servono evidenze che almeno associno la facoltà linguistica all’apprendimento sociale e alla preparazione di manufatti.
Nel frattempo, il paesaggio che circonda i contendenti è fortunatamente cambiato. Pensieri e parole non lasciano fossili, però genetica e neuroscienze stanno fornendo indizi sempre più interessanti sull’emergere del linguaggio da competenze gestuali o da vocalizzazioni, o da entrambe. La teoria dell’evoluzione si è aggiornata e non è più quell’arena gladiatoria, tutta geni e competizione, tanto amata da autori di successo come Richard Dawkins. Grazie agli sviluppi dell’etologia cognitiva e della paleoantropologia, comprendiamo meglio le parentele e le unicità che al contempo ci uniscono e ci differenziano dai nostri cugini più stretti, viventi ed estinti. Gli intrecci fra evoluzione biologica ed evoluzione culturale allontanano l’idea di poter ridurre l’una all’altra. Possiamo cioè distinguere la facoltà di parola, e i correlati biologici che la sottendono, dall’origine delle lingue storiche, pur senza considerarli universi inconciliabili.
È tempo allora di incrociare i ferri, tra linguisti e non linguisti, su questioni aperte ben più interessanti rispetto al vano inseguimento del fatidico «gene del linguaggio». L’evoluzione è infatti ricerca di cause remote che, nella continuità del processo e fra mille contingenze inaspettate, hanno prodotto diversità e innovazione. Per esempio, la scoperta (italiana) del bellissimo fenomeno di risonanza cerebrale che ci permette di comprendere le azioni degli altri attraverso la nostra cognizione motoria, aiuta sicuramente a capire il linguaggio. Ma dai neuroni specchio visualizzati in un macaco bisogna passare a due persone che stanno parlando nella loro lingua, e non è facile. Le attività neurali coinvolte nel linguaggio hanno spesso una connessione con competenze senso-motorie più antiche. Questo lascia supporre che l’evoluzione abbia lavorato come un bricoleur, riutilizzando strutture già esistenti (forse legate a competenze gestuali e mimiche) e cooptandole per nuove funzioni. Quindi non solo adattamenti diretti, ma anche ingegnosi rimaneggiamenti in nuovi contesti (anche culturali).
Gli alberi di parentela tra le popolazioni umane, ricostruiti attraverso le comparazioni genetiche, corrispondono abbastanza bene alle affinità tra le principali famiglie linguistiche, benché i due processi siano molto diversi. Gli idiomi non evolvono come le popolazioni biologiche, perché le innovazioni sono più rapide e i fattori socio-culturali (come una lingua di dominatori imposta con la forza) sono determinanti. Inoltre, la presunta maggiore o minore complessità di una lingua non ci dice quanto sia «primitiva». Ma allora perché i due alberi sono così simili? Difficile saperlo, dato che le testimonianze scritte non vanno più indietro di poche migliaia di anni, ma forse l’isolamento geografico è il tratto comune.
Memori di mai sopite diatribe, i genetisti ora si spingono raramente a ipotizzare una monogenesi delle lingue. In un recente articolo su «Science», il biologo e statistico Quentin Atkinson ha però riacceso gli animi, mostrando che esiste una forte corrispondenza tra il calo della diversità genetica che si riscontra nelle popolazioni umane allontanandosi dall’Africa (a riprova del fatto che tutti gli esseri umani attuali discendono da un ristretto manipolo di pionieri africani, che poi, di piccolo gruppo in piccolo gruppo, si sono sparsi ovunque) e il calo della diversità dei fonemi nelle lingue parlate oggi in tutto il mondo. Anche il numero di fonemi diminuisce allontanandosi dall’Africa, come se le lingue di quei piccoli gruppi si fossero diversificate nello stesso modo. Tuttavia, i fonemi non sembrano una buona base statistica per questi calcoli e occorre verificarne altri.
Per chi non voglia rassegnarsi al mistero, deve esistere un qualche momento dell’evoluzione in cui le facoltà cognitive umane hanno plasmato il linguaggio verbale. È plausibile che efficaci sistemi di comunicazione pre-linguistica fossero già a disposizione di altre specie del genere Homo. Il contesto ideale per coltivarli non furono le battute di caccia, ma le interazioni fra i cuccioli e le madri. Non sappiamo però quale tipo di linguaggio esibissero il Neanderthal e le altre forme umane che hanno vissuto fino a poche decine di migliaia di anni fa.
Di recente è emerso però un indizio che colpisce. Homo sapiens è la specie umana che ha allungato più di ogni altra il periodo giovanile: questa fragilità ci ha regalato anni in più di apprendimento e di sperimentazione, a partire da una dotazione anatomica già moderna. In seguito gli Homo sapiens hanno incontrato altre forme umane e sono rimasti da soli dopo un’ultima espansione fuori dall’Africa (60 mila anni fa) da parte di gruppi che per la prima volta mostravano un comportamento cognitivamente moderno (arte, ornamenti, sepolture rituali, strumenti musicali). Che cosa avevano di tanto nuovo in mente questi nostri antenati così intraprendenti? Una rivoluzione culturale. Darwin ipotizzò che parole e pensieri si fossero evoluti insieme, ristrutturandosi a vicenda. Come ha notato l’evoluzionista Mark Pagel, forse proprio il linguaggio articolato è stato l’«arma segreta» che ha permesso la nostra diffusione in ogni angolo del globo, facendoci percorrere in solitudine l’ultimo miglio dell’evoluzione umana.
Telmo Pievani