Serena Danna, la Lettura (Corriere della Sera) 17/06/2012, 17 giugno 2012
DEMAGOGIA DIGITALE
Nel 1997 la rivista americana di cultura digitale «Wired» dedica la copertina al protagonista del nuovo secolo: the digital citizen. Scrive Jon Katz: «I cittadini digitali saranno fautori del razionalismo, adoreranno le libertà civili e il libero mercato e saranno moderatamente libertari. Tuttavia, senza veri leader, e senza un’agenda ben definita, saranno incapaci di incanalare energia e conoscenza in direzioni dotate di senso». La visione di «Wired» è in parte diventata realtà: il numero di utenti Internet nel mondo è passato da 30 milioni a più di due miliardi; online i cittadini possono informarsi, votare, discutere e sollevare proposte di legge. Grazie alle iniziative di e-government (gestione digitalizzata della Pubblica amministrazione), le amministrazioni centrali stanno informatizzando i processi burocratici rendendoli più agevoli e trasparenti (ma il nostro Paese resta al 32esimo posto nella classifica 2012 dell’Onu). Tuttavia la visione di Katz risente di quel tecno-utopismo che ha accompagnato la nascita di Internet: la promessa di uno spazio altro, il cyberspace, dove i problemi del mondo fisico avrebbero trovato soluzione.
Oggi che il confine tra reale e virtuale è stato abbattuto e Internet è parte integrante delle nostre vite, quel tecno-utopismo applicato alla democrazia rischia di trasformarsi in un mezzo per eccitare cittadini indignati. L’idea di una democrazia digitale capace di liberare gli uomini dalle catene del potere è il trend topic degli ultimi anni: dalle colorite riunioni del Tea Party alle proteste dei movimenti Occupy, dall’iper democrazia del Movimento 5 stelle in Italia all’iper partecipazione promossa dal Partito dei pirati in Olanda. Personaggi molto diversi tra loro hanno celebrato l’avvento di una democrazia digitale, che, oltre ad aver dato «il colpo finale ai partiti» (Beppe Grillo); messo «il potere nelle mani dei cittadini» (Alec Ross, consigliere per l’innovazione di Hillary Clinton); e fornito un’«arma di educazione alla pace» (Nicholas Negroponte, fondatore del Media Lab del Mit), sarebbe stata la protagonista delle rivolte in Medio Oriente e Nord Africa, etichettate da molti come «Twitter revolution».
Salvo poi scoprire che in Egitto solo il 10% della popolazione usa Facebook: percentuale che scende al 6% in Siria e al 3,74% in Libia. Con Twitter il confronto con la realtà va anche peggio: in Siria ha un account lo 0,03% della popolazione, in Libia lo 0,07% e in Egitto lo 0,15% (dati dell’autunno 2011 contenuti nell’ultimo «Arab Social Media Report» della Dubai School of Government).
Già nel 2007, Matt Hindman, giovane professore di Information Technology and Politics all’Università dell’Arizona, aveva illustrato in The myth of digital democracy i rischi di una sopravvalutazione dell’influenza positiva di Internet sul processo democratico. Contattato via Skype spiega: «Chi crede che la democrazia digitale sia la soluzione a tutti i mali della politica trascura un aspetto fondamentale: i veri assenti nel dibattito politico online sono i moderati. Usano poco e male la rete, a differenza dei cittadini con idee più "radicali", che trovano su Internet uno spazio per incontrarsi e organizzarsi».
Thad Hall, ricercatore dell’Institute of Public and International Affairs dello Utah e autore di Electronic Elections: The Perils and Promises of Digital Democracy, aggiunge: «Le comunità che si creano online sono, per usare un’espressione di Cass Sunstein, "enclave digitali": l’interazione è spesso settoriale e si radicalizza su posizioni estreme».
Per Wainer Lusoli, direttore dell’Institute for Prospective Technological Studies del CCR, Centro comune di ricerca della Commissione europea, il web — più che dare potere ai cittadini — lo ha consegnato nelle mani delle tecno-élite: «Giornalisti, accademici impegnati, premi Nobel, giovani attivisti politici locali: loro — "i pochi" — rappresentano la porta di entrata per "i molti", che non hanno gli incentivi, le risorse culturali o la volontà di informarsi quotidianamente. Non ci sono alternative: dobbiamo fidarci. Occorre metterli nelle condizioni di guidarci, offrendo loro supporto e formazione, favorendo il contatto con i decisori. In breve, aiutare "i pochi" ad aiutare "i molti"».
Prendersela solo con gli estremisti non è giusto. Puntualizza Alec Ross: «I moderati dovrebbero essere smart quanto i radicali, che — non avendo altri spazi — mettono molta passione nella comprensione e nell’uso dei media digitali, a differenza dei primi che stanno a girarsi i pollici, lamentandosi della situazione». Ross, che ha guidato la campagna digitale di Obama nel 2008, è convinto che l’esempio arrivi proprio dal «moderato» presidente degli Stati Uniti: «La sua vittoria ha dimostrato che è possibile coinvolgere online anche la massa silenziosa».
Se è vero che un elettore di estrema sinistra difficilmente andrà su siti lontani dal suo credo politico, il web 2.0 ha «costretto» gli utenti con idee diverse a confrontarsi: «I social network — spiega Cristian Vaccari, docente di Scienza politica all’università di Bologna — hanno ribaltato il teorema dell’omofilia, creando un compromesso tra ciò che l’utente sceglie di leggere online e gli input che arrivano dall’esterno». Vaccari, che ha appena pubblicato il volume Politica online, mette in luce un altro aspetto controverso della e-democracy: l’informazione. Internet è sì una sorgente sterminata a cui tutti possono accedere, ma quanti utenti lo usano davvero per cercare notizie e approfondimenti riguardanti la politica? «Durante la campagna elettorale i cittadini italiani che hanno dichiarato di aver cercato informazioni politiche sono il 16%. Dopo di noi, solo la Spagna. Al primo posto ci sono gli Stati Uniti, con il 45%».
Guardando la lista di Hitwise degli argomenti più cercati questa settimana online nel Paese che tra poco deciderà la rielezione di Barack Obama, neanche uno riguarda temi politici. Ai primi posti: il tumore al cervello di Sheryl Crow e l’incidente automobilistico di Lindsay Lohan.
C’è poi il problema di chi organizza le (poche) informazioni politiche disponibili online. I colossi del web — da Google a Facebook — che decidono la gerarchia delle notizie, utilizzano come parametri o gli investimenti pubblicitari delle aziende oppure le nostre preferenze. Scrive Eli Pariser ne Il Filtro: «La democrazia funziona solo se siamo capaci di pensare andando al di là del nostro ristretto interesse personale. Per farlo dobbiamo entrare in contatto con la vita, i bisogni, i desideri degli altri. La bolla dei filtri ci spinge nella direzione opposta, ci dà l’impressione che esista solo il nostro interesse personale». È l’architettura stessa di Internet a minacciare la qualità dell’informazione che cerchiamo fuori dai circuiti istituzionali delle news.
L’uso che i politici fanno del web per avvicinare e coinvolgere gli elettori non sempre segue l’esempio di Barack Obama: «Se usi Internet come brand sei destinato a perdere. Bisogna sostanziare le attività online con la politica tradizionale», puntualizza Ross. «Vinte le elezioni — continua —, Obama ha portato la lezione dei social media nel governo, rendendolo più open, più partecipativo».
Una ricerca a cura di Sara Bentivegna mostra che in Italia i parlamentari presenti online hanno come obiettivo principale la self promotion: su Facebook il 22,5% dei politici non ha mai postato sulla propria bacheca, il 28,7% non ha ricevuto commenti e — dato più grave — il 60% non ha mai risposto ai commenti. Rispondere, commentare, interagire sono i primi passi per rendere il rapporto con i cittadini davvero democratico. Chiosa Carlo Blengino, avvocato che si occupa di diritti e doveri online: «Un errore che fanno in molti è usare il web come megafono delle proprie idee e confonderlo con la democrazia diretta».
Internet ha certo aumentato il livello di partecipazione dei cittadini e di trasparenza dell’attività pubblica: «Avere reti di cittadini, non di fan, che si organizzano, è sempre positivo; però i movimenti hanno bisogno di una leadership: non mi riferisco a un capo ma a leader competenti capaci di organizzare le persone e di dare concretezza alle loro idee». La tecnologia non manca: piattaforme come The Blue Print, Free Speech Debate, Meetup e anche quella per la consultazione del Partito dei pirati, LiquidFeedback, dimostrano che i mezzi per allargare il dibattito e la partecipazione online ci sono e possono funzionare.
Certo, uno dei più grandi progetti di politica partecipativa di Obama — il portale aperto ai cittadini di petizioni online «We the People» — ha raccolto in 3 anni solo 36 petizioni e la più votata può contare su 101 mila voti. Vaccari lo spiega così: «La maggior parte degli elettori non ha e non vuole avere un’opinione su tutto: se chiediamo agli italiani cosa pensano del ddl sulla corruzione, quasi nessuno saprà risponderci. Seguire le dinamiche di governo non è come esprimersi sui diritti umani. I cittadini non hanno risorse né di tempo né cognitive per occuparsi delle politiche pubbliche, per questo delegano a esperti. Da questo punto di vista, Internet non ha cambiato nulla».
Serena Danna