Paolo Valentino, Corriere della Sera 17/06/2012, 17 giugno 2012
OSLO, 21 ANNI DOPO AUNG SAN SUU KYI RITIRA IL SUO NOBEL - È
stato un discorso politico. È stato un discorso filosofico. È stato un discorso poetico. Aung San Suu Kyi (foto) ha potuto pronunciarlo, dopo un’attesa di 21 anni, nella sala del municipio di Oslo, in accettazione del Nobel per la Pace di cui era stata insignita nel 1991, quando la giunta militare in Birmania la costringeva agli arresti domiciliari impedendole di viaggiare.
In quello che il presidente del Comitato, Thorbjorn Jagland, ha definito «uno degli eventi più rilevanti nell’intera storia del Premio», l’ex dissidente e ora leader dell’opposizione parlamentare birmana ha voluto lanciare un messaggio forte di pace, riconciliazione, tolleranza e gentilezza verso gli altri. Una riflessione alta e concreta; universale e ispirata dalla fede buddista, ma anche mirata alla specifica situazione del suo Paese, su cui Aung San Suu Kyi ha espresso solo «cauto ottimismo», ricordando che la strada verso la piena democrazia è lunga.
È stata una cerimonia ricca di grazia ed emozione. Una cascata di fiori multicolori, omaggio alla tradizione asiatica, ha addolcito l’architettura imponente e squadrata dei luoghi. Il suono di un’arpa birmana ha regalato suggestioni orientali alla fredda luce del Nord. Lei è apparsa più minuta del solito, vestita in tre gradazioni di porpora e lavanda, un fiore bianco tra i capelli, in un gesto che evoca la memoria del padre, il generale Aung San, eroe dell’indipendenza assassinato nel 1947. Il volto già provato da un viaggio trionfale ma anche faticosissimo, che dopo Svizzera e Norvegia, la vedrà in Irlanda, Gran Bretagna e Francia.
«Nel suo isolamento — ha detto Jagland — Lei è diventata un leader morale per il mondo intero. Pochi hanno fatto più di Lei per rendere il pianeta un posto migliore per tutti».
Davanti a una platea meticcia, dove la famiglia reale norvegese sedeva fianco a fianco a monaci buddisti e rappresentanti della comunità asiatica, Aung San Suu Kyi ha ricordato la sera in cui alla radio apprese del Nobel e i sentimenti tumultuosi suscitati dalla notizia: «Il Premio Nobel aprì una porta nel mio cuore. Mi restituì il senso della realtà. Non accadde subito, ma fu il riconoscimento che anche gli oppressi e gli isolati in Birmania fossero parte di una sola umanità. Più importante, attirò l’attenzione del mondo sulla nostra lotta per la democrazia e i diritti umani: non saremmo stati dimenticati».
Vent’anni dopo, ci sono segnali che il lavoro di chi crede in quei valori stia producendo frutti, «cambiamenti nella giusta direzione». Ma Aung San Suu Kyi è cauta sugli sviluppi birmani, «non perché non credo nel futuro, ma perché non voglio incoraggiare una fede cieca». Per i più celebri che sono stati liberati, «ci sono ancora tanti, sconosciuti prigionieri di coscienza» e c’è il timore che vengano dimenticati. Lei non intende diminuire l’intensità del suo impegno: «Lotto per la democrazia in Birmania perché credo che istituzioni e pratiche democratiche siano necessarie per il rispetto dei diritti dell’uomo». Ma «voi che mi guardate e mi ascoltate, ricordatevi — ha aggiunto, suscitando la prima standing ovation della giornata — che anche un solo prigioniero di coscienza è uno di troppo».
E non ha taciuto sulle gravi violenze di questi giorni, invocando un accordo di riconciliazione nazionale tra il governo di Thein Sein e le etnie, cui tutti, dai militari ai partiti, devono dare il loro contributo. Alla comunità internazionale «spetta un ruolo vitale», nel migliorare la vita delle persone con aiuti umanitari e investimenti.
«La pace del nostro mondo è indivisibile» e le sue «fondamenta sono sotto attacco». E non è solo la guerra a minarle. Ovunque venga ignorata la sofferenza, il concetto buddista di dukkha, «sono gettati i semi di un conflitto, poiché la sofferenza degrada, provoca rabbia e rancore». La pace assoluta «non è obiettivo raggiungibile» perché la «pace perfetta non è di questa Terra». Rimane però la meta cui tendere, proprio come la stella che «guida il viaggiatore fuori dal deserto verso la salvezza».
In uno dei passaggi più belli del discorso Aung San Suu Kyi ha parlato infine della gentilezza, la «lezione più preziosa imparata nell’avversità». Gentilezza verso gli altri, i rifugiati, gli esuli in ogni parte del mondo, con i quali «non possiamo permetterci stanchezza nella compassione». «Stringiamo le mani — ha concluso tra gli applausi — per creare un mondo di pace dove ognuno possa dormire sicuro e risvegliarsi felice».
Paolo Valentino