Stefano Landi, Corriere della Sera 17/6/2012, 17 giugno 2012
Simone Rossetto ha infilato i guantoni a 14 anni. I primi combattimenti sul ring di Ventimiglia: due volte campione ligure, poi interregionale e bronzo agli Assoluti italiani nel 2010 nella categoria pesi Medi, diventando terzo nella classifica dei migliori pugili del Paese
Simone Rossetto ha infilato i guantoni a 14 anni. I primi combattimenti sul ring di Ventimiglia: due volte campione ligure, poi interregionale e bronzo agli Assoluti italiani nel 2010 nella categoria pesi Medi, diventando terzo nella classifica dei migliori pugili del Paese. Si allena alla palestra California Club di Arenzano (Genova), dove tiene anche un corso di pugilato, sempre più frequentato, soprattutto da ragazze. F orte con i forti, più forte con i deboli. Perché non tutti i pugni partono per far male. Ma non chiamatelo pugile buono, è un’etichetta che non basterebbe a rappresentare questa storia. E poi se chiedeste a chi ha incrociato i guantoni con lui sul ring vi racconterebbe di un ragazzo da pochi abbracci e tante sventole. Simone Rossetto, 29 anni, ha deciso che si può vincere sul ring pur dedicando tre quarti della propria giornata ad aiutare chi esce dal coma. Risvegliarsi non basta, spesso non sarà più come prima. Simone è tra i pugili più promettenti in Italia. Ma il sogno nel cassetto della sua camera a Genova è sempre stato aprire una comunità per ragazzi disabili. «Non mi sento un eroe, ho solo trovato il modo di dare forma alla mia sensibilità» racconta. Simone è cresciuto a contatto con un certo tipo di sofferenza. Da piccolo dopo la scuola aspettava che il papà psicologo finisse di lavorare nel suo studio in un centro disabili. Faceva amicizia con giovani pazienti Down anche a casa. Forse per questo, uscito dalle scuole medie, ha scelto i banchi meno di moda fra i suoi coetanei: un percorso psicopedagogico. A 16 anni ha preferito un tirocinio in un istituto per sordomuti piuttosto che uno stage in azienda. «Allenavo i ragazzi ad adattarsi alla vita normale attraverso lo sport: ricevevo più di quello che davo e probabilmente sentivo quel calore familiare che mi è sempre mancato». Ancora oggi quei ragazzi ormai cresciuti gli mandano gli auguri a Natale. S imone ha iniziato a boxare a 14 anni. Le leggende sul pugilato che gli raccontava il nonno l’hanno spinto sul ring. «Mi dicevano che avevo poca testa e tante braccia». Intanto lui arriva a 16 anni senza aver perso un incontro. Però mancava sempre l’ultimo passo: inquadrare la rabbia in una tecnica di livello. Ma quando c’era da colmare quel vuoto, lui scappava per fare la cosa che gli piaceva di più. La sua bella vita era aiutare chi al tappeto c’era finito per il pugno più duro. A 17 anni Simone abita già da solo e mantiene la sua vita da volontario all’Anffas facendo il cameriere. Il tempo che avanza dagli allenamenti lo spende con le famiglie dei pazienti da educatore domiciliare. Porta i ragazzi in piscina, cercando di migliorare la loro vita regalando loro qualche minuto in più di autonomia. E cercando di risolvere il primo problema di una famiglia che invecchia vedendo crescere il proprio figlio con un handicap: «Cercavo — spega — una spalla che reggesse economicamente i miei sforzi, i finanziamenti per aprire una comunità». Solo che le istituzioni posticipavano e quelli che lui chiama universalmente ragazzi, anche se cinquantenni, non potevano aspettare. L’idea si è materializzata quattro anni fa in una palazzina di Pegli, alle porte di Genova, aperta insieme a Elena Di Girolamo, madre di un "ragazzo" disabile. È nata una nuova sfida: se prima si lavorava con l’abitudine emotiva di chi in una condizione ci si trova dalla nascita, ora c’è da combattere il disorientamento di chi in una maledetta situazione ci si è trovato all’improvviso. «Cerchiamo di ricreare un nucleo famigliare che aiuti i ragazzi e formi i genitori» dice Simone. Un giorno si ritrova tra i pazienti Marco, che a 18 anni in un incidente ha perso l’uso di un braccio. La fine di un pugile che fino a qualche giorno prima si allenava con lui. Sognava di tornare alla vita di prima e per questo si presentava al centro con la tuta della palestra. Ma la testa si rifiutava di far partire gli imput necessari. «Gli ho infilato i guantoni chiedendogli di portare i suoi colpi: boxavamo tutti i giorni». Il braccio lentamente ha ripreso a funzionare. «Ogni giorno mi facevo assistere dal fisioterapista, Marco voleva che venisse anche il suo vecchio maestro di boxe Enzo Celano a vedere i progressi». Un esperimento che ripeterà quando avrà pazienti con la possibilità di muovere almeno parzialmente gli arti. «Ora sto curando un ragazzo che vorrebbe infilare i guantoni: è in carrozzina, muove un braccio, penso che ci proveremo». P ugili (forse) si nasce, ma educatori si diventa. «Ogni giorno seguo la strada che mi indica il medico che ci assiste, poi ci metto del mio» precisa il giovane campione. E se domani si trovasse nella casella delle lettere un last minute per le Olimpiadi di Londra? «Mi piacerebbe avere più visibilità a livello sportivo e conquistare la cintura del titolo italiano, ma se devo scegliere mi tengo il lavoro con i miei ragazzi. Combatto ogni giorno perché nessuno nei due mondi che frequento mi dica che sto dando troppo da una parte sola». I ragazzi hanno i suoi poster in camera. Ogni ritaglio di giornale di un combattimento viene appeso al muro. La vita non è un cerchio perfetto, né quadrata come un ring. È quando assume le altre forme che bisogna parare i colpi e non si può perdere la partita.