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 2012  giugno 17 Domenica calendario

«How your money is spent»: come spendiamo i vostri soldi. Da anni ormai nel sito del governo britannico si trova un pulsante che apre uno sterminato foglio Excel nel quale si trova elencata ogni spesa di importo superiore a 25 mila sterline fatta con i denari pubblici

«How your money is spent»: come spendiamo i vostri soldi. Da anni ormai nel sito del governo britannico si trova un pulsante che apre uno sterminato foglio Excel nel quale si trova elencata ogni spesa di importo superiore a 25 mila sterline fatta con i denari pubblici. C’è scritto chi ha pagato, quanto ha pagato, dove ha comprato, quando ha acquistato e perché l’ha fatto. Nella stessa pagina c’è un blog nel quale chiunque può lasciare un commento. Tanto i privati cittadini quanto i dipendenti pubblici. Qualcuno si lamenta perché il dipartimento della Salute spende troppo per far viaggiare i suoi funzionari, altri contestano il livello a loro dire troppo alto delle fatture per l’informatica della Corona, c’è perfino chi ipotizza che l’obiettivo di tanta abbondanza di dati informatici sia in realtà quello di confondere le acque. Tutto accessibile, tutto online. Ne abbiamo impiegato, del tempo, per capire che la full disclosure britannica, la trasparenza assoluta dei conti e degli atti amministrativi, è l’unica vera strada per combattere sprechi e corruzione. Anche se, diciamo la verità, è fortissimo il sospetto che fra il dire e il fare ci sia ancora di mezzo un bel po’ di mare. Benissimo, dunque, la decisione di imporre a tutte le amministrazioni di mettere online tutte le spese superiori a mille euro. Ancora meglio se quest’obbligo costringerà gli enti locali non soltanto a rendere pubblici e accessibili i loro atti ma anche a fare un salto tecnologico. Perché si fa presto a dire trasparenza in un Paese come l’Italia, dove la Pubblica amministrazione e Internet si guardano ancora in cagnesco. Secondo un rapporto della Confartigianato, nel 2009 i Comuni in grado di consentire ai propri cittadini di fare qualunque pratica senza recarsi materialmente a uno sportello del municipio erano appena 541 su circa 8.100. Cioé il 6,7 per cento del totale. Ma ancora meno erano quelli che potevano fornire esclusivamente per via telematica servizi alle imprese: appena 112. Dice ancora il rapporto dell’organizzazione degli artigiani che sempre in quel 2009 c’erano in Italia ancora 1.191 Comuni che non adottavano «alcuna informatizzazione» per il Patrimonio, 818 che gestivano senza computer il personale, 227 i pagamenti, 194 le tasse e 49 che facevano ancora la contabilità a mano. Ancora. Per lo sportello unico delle imprese previsto dalla legge i municipi che hanno dichiarato di essere in grado di pensarci autonomamente sono 4.717. Quelli che hanno deciso di utilizzare il sistema standardizzato delle Camere di commercio gestito da Infocamere sono invece 2.585. Ed è già da considerarsi un grande successo. Degli altri ottocento, nessuna notizia. Il resto viene di conseguenza. Non è un caso che nel 2011 le imprese italiane che sistematicamente utilizzavano Internet per dialogare con la Pubblica amministrazione fossero appena il 39 per cento, livello inferiore di 30 punti alla media europea (69 per cento) e paragonabile a quello della Romania. Unico Paese europeo, questo, che fa peggio di noi nell’uso quotidiano della rete per i rapporti con la burocrazia. Gli italiani di età compresa fra 16 e 74 anni che utilizzano questo strumento sono il 39 per cento del totale, contro il 56 per cento della media europea e il 16 per cento dei rumeni. Di più. Sostiene l’Istat che fra coloro, già pochini, i quali dialogano con la Pubblica amministrazione via web, meno del 13 per cento ha assolto obblighi burocratici con l’invio di moduli compilati. La maggioranza si è limitata a chiedere informazioni (35,1 per cento) e a scaricare fac simili (25,4). Per quanto riguarda quel 39 per cento di imprenditori che si ostinano a usare il computer, quasi un quarto di loro denuncia che le procedure elettroniche per inviare documenti alla Pubblica amministrazione prevedono anche la spedizione di moduli cartacei. E torniamo ai rumeni. Perché se sono azzeccate le statistiche delle istituzioni specializzate, la Romania ci surclassa per velocità di download della rete: 6,8 megabyte al secondo, contro i nostri miseri 3 megabyte. Decisamente è anche un serio problema di infrastrutture, come purtroppo abbiamo verificato in molte occasioni. Spie di questa preoccupante situazione si sono accese ripetutamente. In modo anche vistoso. È accaduto pure lo scorso autunno quando chi provò il primo giorno a compilare sul web il questionario del censimento Istat sperimentò un imbarazzante blocco del sistema. E qui si tocca con mano tutta la nostra arretratezza causata da una clamorosa carenza di visione politica. Sarebbe sufficiente ricordare il penoso destino del piano, ripetutamente annunciato, per la banda larga. E la mancanza di visione politica fa il paio con la paurosa assenza di cultura della trasparenza. Che premia un sistema opaco e autoreferenziale. Un esempio? Lo Stato non è in condizione di conoscere con un clic, come sarebbe naturale, quanto guadagnano davvero i suoi altissimi dirigenti che cumulano più incarichi. Il ministro della Funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, lo ha ammesso pubblicamente. E nel decreto che stabilisce l’applicazione del famoso tetto dello stipendio del presidente di Cassazione per le retribuzioni pubbliche ha dovuto inserire una norma in base alla quale devono essere i dirigenti a comunicare ogni anno allo Stato quanto lo Stato li paga. Ancor prima di far mettere online pagamenti oltre 1.000 euro andava prescritto per tutte le amministrazioni centrali, le Regioni, le Province e i Comuni l’obbligo di pubblicare sui propri siti Internet semplicemente tutti i bilanci. Ma chiari, leggibili e soprattutto confrontabili. Non come adesso: tutti diversi e oscuri. Quando si trovano.