Lauretta Colonnelli, Corriere della Sera 02/06/2012, 2 giugno 2012
TIEPOLO, OPERA IN NERO
Sette matrici in rame di Giambattista Tiepolo e cinque del figlio Giandomenico: si vedono per la prima volta a Roma, insieme a ottanta incisioni, praticamente l’ intera opera grafica dei due artisti veneziani. Un’ occasione unica per gli studiosi e gli appassionati. Le matrici, di proprietà del Museo Correr di Venezia, sono arrivate nella capitale perché bisognose di un restauro. Alla ripulitura ha provveduto l’ Istituto nazionale per la Grafica, ed è proprio nei locali dell’ Istituto (in via della Stamperia 6) che per gli ultimi due giorni le lastre sono esposte ancora fino a domani, accanto alle opere già apparse nella grande mostra al museo di Chiasso, «Tiepolo nero, opera grafica e matrici incise», a cura di Lionello Puppi e Nicoletta Ossanna Cavadini. Nell’ edizione romana, curata da Rita Bernini, ai fogli visti a Chiasso si aggiunge la serie dei Capricci, dieci acqueforti di Giambattista, proveniente dal Gabinetto nazionale delle Stampe. Una sezione della mostra è inoltre dedicata al confronto tra Giambattista Tiepolo e Giambattista Piranesi, il primo nato nel 1696, il secondo vent’ anni più tardi. Si erano formati entrambi a Venezia, ma un loro possibile incontro non è documentato dalle fonti. Gli studiosi ipotizzano tuttavia che Piranesi, trasferitosi a Roma nel 1740, abbia conosciuto Tiepolo durante un suo breve ritorno nella città lagunare, tra il 1745 e il 1747. Ipotesi che deriva proprio dall’ analisi delle acqueforti. «Il momento di maggiore adesione dello stile piranesiano a un influsso veneziano è visibile in modo abbastanza evidente soltanto nelle quattro tavole dei Grotteschi e nella serie delle Carceri, realizzate nei due anni immediatamente successivi al rientro dell’ artista a Roma». Tiepolo aveva pubblicato nel 1743 i Capricci, e aveva sicuramente iniziato a pensare agli Scherzi di fantasia, che poi saranno pubblicati postumi dal figlio Giandomenico nel 1757. Il titolo della mostra «Tiepolo nero», deriva dai soggetti misteriosi e inquietanti di queste acqueforti, dove appaiono maghi e creature oniriche, scimmie e figure esotiche, scheletri e rapaci notturni, il cui significato simbolico è ancora in parte oscuro agli studiosi. Il nero non si riferisce quindi, come si potrebbe intuire, alla pesantezza del segno grafico, ché anzi in Giambattista è di una levità piena di luce e talmente moderno da aver attratto gli artisti neoclassici. Quegli stessi che tennero in poco conto i dipinti dell’ artista, considerandolo l’ ultimo epigone, assai decadente, della fortunata stagione coloristica veneziana. Nelle acqueforti di Giandomenico, la leggerezza del tocco grafico del padre lascia il posto a un uso sapiente della tecnica che talvolta sfiora effetti virtuosistici. Come si può notare nelle ventidue tavole della «Fuga in Egitto», dove il viaggio di Giuseppe e Maria con il bambino si dipana tra deserti e fiumi, città in rovina e boschi, dirupi montani e campagne popolate di greggi. Con l’ angelo a far da guida o a spingere l’ asinello nelle salite più impervie; sullo sfondo di cieli luminosissimi. E con un vento che aumenta di intensità di tavola in tavola, fino a diventare, nell’ ultima, una specie di uragano che strappa i mantelli e sconquassa la palma sotto la quale la famigliola ha cercato riparo.
Lauretta Colonnelli