Marisa Fumagalli, Corriere della Sera 16/06/2012, 16 giugno 2012
IN VIAGGIO CON IL CIBO (ALTRO CHE CHILOMETRO ZERO)
Per raccontare la biodiversità dell’Italia agricola, Oscar Farinetti la prende da lontano. Dai Romani, che sapevano fare i contadini, e dai Comuni che imponevano forti gabelle sullo spostamento delle merci. «Dunque, si era costretti a produrre, cucinare e valorizzare ciò che c’era in casa propria — dice —. Ecco perché a Modena il ripieno dei tortellini è di prosciutto, mentre a Bologna di mortadella. Eppure, tra un centro e l’altro vi sono soltanto 30 chilometri di distanza».
L’affabulatore di Eataly, avventuroso comandante al timone di un impero enogastronomico, fondato a Torino (2007) ed esteso in vari continenti, approda in questi giorni a Roma, caput mundi. Dopo aver messo radici in altre città italiane, a Tokio e New York. A Manhattan, il tempio del made in Italy enogastronomico (80 milioni di dollari di fatturato), americani e turisti fanno la fila davanti ai paccheri, ai vini, all’olio extravergine, ai pomodori, ai formaggi, ai salumi del Bel Paese. Affollano gli eventi, comprano libri di cucina, siedono ai tavoli dei ristoranti che propongono menu italiani, preparati con gli ingredienti giusti. «I clienti li faccio innamorare», si compiace Farinetti all’indomani dell’inaugurazione di Eataly-Roma, che apre al pubblico giovedì 21 giugno.
Diavolo di un Oscar! Coniugando, per sua ammissione, onestà e furbizia, personalizza ogni nuovo food store ispirandosi a un concetto: l’armonia (Torino), il coraggio (Genova), il dubbio (New York) dove, sull’ingresso, c’è un cartello: «Il cliente non ha sempre ragione e nemmeno noi». «A Roma — spiega — la parola magica si chiama bellezza. Dobbiamo vendere bellezza. Il cibo è una delle nostre più grandi bellezze. Così, salviamo l’Italia e il mondo». Il capitano coraggioso che, nella sua prima vita, commerciava in elettrodomestici (Unieuro), è convinto non solo di saper offrire ottimo cibo ma anche di riuscire a cambiare la mentalità di chi acquista. «La conoscenza dei prodotti è scarsa, anche in Italia. Quanti saprebbero distinguere un prosciutto di suino nazionale da quello europeo? — incalza —. Ebbene, a Eataly si compra e si impara. Capendo quanto valga la pena spendere un po’ di più e godere».
Farinetti, tosto, è un inguaribile ottimista. «Il segreto del successo? Crederci e poi ancora crederci», ripete. Le maggiori difficoltà, confida, arrivano dalla burocrazia: «In Italia, siamo maestri nel genere. Nella capitale è stata una corsa a ostacoli». Al contrario, Manhattan gli ha dato «sburocratiche» soddisfazioni. Racconta: «Al sindaco Bloomberg è bastato mettere nero su bianco che avrei assunto 400 americani. Ora i dipendenti sono 810». Farinetti non sopporta più di tanto la filosofia del km zero. «Certo, per mangiare una mela non occorre farla venire dal Canada. Ma i prodotti migliori devono poter viaggiare nel mondo: il vero parmigiano, il barolo, l’extravergine. Per contro, anche lo champagne, il foie gras, il jamon iberico». Prende di mira, infine, la giungla delle denominazioni: doc, docg, igt, eccetera. «Troppe — sentenzia —. Così, nessuno comprende più nulla, specie all’estero dove si percepisce il made in Italy tout court. Un’idea ce l’avrei: creare un unico marchio delle eccellenze agroalimentari (la bandierina italiana) per i prodotti che rispettano un disciplinare, semplice ma rigoroso». Lo riassume in tre parole, prese a prestito dall’amico Carlin Petrini, fondatore di Slow Food: buono, giusto, pulito. «E chi truffa, deve andare in galera», conclude.
Marisa Fumagalli